lunedì 27 aprile 2015

Michel Pastoureau e i colori


A forza di averli sott’occhio, si finisce col non vederli più. Insomma, non li si prende sul serio. Errore! I colori non sono irrilevanti, tutt’altro.
Veicolano dei codici, dei tabù, dei pregiudizi cui obbediamo senza saperlo, possiedono significati reconditi che influenzano profondamente il nostro ambiente, i nostri comportamenti, il nostro linguaggio e il nostro immaginario.
I colori non sono immutabili. Hanno una storia, movimentata, che risale alla notte dei tempi e che ha lasciato tracce perfino nel nostro vocabolario: non per caso vediamo rosso, siamo al verde, diventiamo bianchi come un lenzuolo, neri di rabbia, abbiamo una fifa blu… Nell’antica Roma, gli occhi azzurri erano una disgrazia; addirittura, per una donna, un segno di dissolutezza. Nel Medioevo, la sposa era vestita di rosso, come le prostitute. Lo si sarà già intuito: i colori la dicono lunga sulle nostre ambivalenze. Sono dei formidabili rivelatori dell’evoluzione della nostra mentalità.
Nel corso della storia, la religione li ha posti sotto il suo controllo, così come ha fatto con l’amore e con la vita privata. Come la scienza abbia detto la sua, sopravanzando la filosofia: onda o corpuscolo? Luce o materia? Come anche la politica se ne sia impadronita: i rossi e gli azzurri non sono sempre stati quelli che conosciamo. E come, oggi, ci portiamo ancora dietro quello strano retaggio. L’arte, la pittura, la decorazione, l’architettura, la pubblicità, naturalmente, ma anche i nostri prodotti di consumo, i nostri indumenti, le nostre auto…
Tutto è retto da un codice non scritto di cui i colori detengono il segreto.
Non è facile districarsi nel labirinto simbolico delle tinte; i colori infatti sono lunatici.
Non si lasciano facilmente imprigionare in categorie. Quanti sono, del resto? I bambini ne nominano spontaneamente tre; Aristotele ne contava quattro, e per uno “scherzo” di Newton, si è decretato che ce ne fossero sette ufficiali. Per Michel Pastoureau, uno dei maggiori studiosi contemporanei, non ci sono santi: ne esistono sei, non di più.
In primo luogo, quel morigerato del blu, prediletto dai nostri contemporanei perché sa farsi benvolere da tutti. Poi l’orgoglioso rosso, assetato di potere, che governa il sangue e il fuoco, la virtù e il peccato. Ecco il bianco virginale, quello degli angeli e dei fantasmi, dell’astensione e delle nostre notti senza sonno. Poi il giallo del grano, un bel complessato, a disagio nei suoi panni (va scusato: per lungo tempo è stato segnato dal marchio dell’infamia). Viene poi il verde, a sua volta malfamato, traditore e scaltro, re del caso e degli amori infedeli. Infine, il sontuoso nero, doppiogiochista, umile nell’austerità, arrogante nell’eleganza…
Poi? Per Michel Pastoureau, c’è un secondo livello; i comprimari, insomma: viola, rosa, arancio, marrone, e il grigio, un po’ appartato… Cinque mezze tinte, che portano nomi di frutti, di fiori… Sono riuscite a dotarsi di simboli propri, a darsi un’identità, come quel rosa insolente che si prende per un colore a tutti gli effetti o quell’arancio che esibisce una vitalità sfrontata… Dietro, vengono la servitù, il corpo di ballo, l’interminabile filza delle sfumature: lilla, magenta, sabbia, avorio e greggio… Inutile cercare di contare: ogni giorno se ne inventano di nuove.
Imparate a pensare a colori, e vedrete il mondo in un altro modo! Ecco una delle lezioni più belle di Pastoureau. In passato, si diceva ai bambini che c’era un tesoro nascosto ai piedi dell’arcobaleno. È vero: là, nel crogiolo dei colori, c’è uno specchio magico che, se sappiamo blandirlo, ci rivela i nostri gusti, le nostre avversioni, i nostri desideri, le nostre paure, i nostri pensieri reconditi, e ci dice cose essenziali sul mondo, e su noi stessi.

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