lunedì 17 marzo 2014

Per la rivoluzione di Grecia


Di recente mi sono imbattuto in due brevi scritti su Giosuè Carducci.
Il primo, redatto da Giorgio Barberi Squarotti, delinea Carducci nel suo tempo, la ricezione che se ne ebbe e ci invita a riconsiderare alcuni giudizi letterari sclerotizzati che nel frattempo si sono affermati. Il secondo, composto da Pier Paolo Pasolini, è brutalmente di condanna del poeta premio Nobel nel 1907, quella brutalità così amabile che solo Pasolini è in grado di creare.
Leggiamo Squarotti:
“…Il Carducci ebbe la grossa sfortuna di riuscire un perfetto interprete del suo tempo, cioè dei decenni seguiti all’unificazione nazionale: lo rispecchiò efficacemente e ampiamente, ne espresse idee, tensioni, ambizioni, rancori, delusioni, velleità, sogni, fantasmi, ne ebbe come risposta un sicuro e durevole successo, fino alla consacrazione a “vate” della cosiddetta “terza Italia”. Un periodo abbastanza lungo della storia della cultura e della società italiana del secondo ‘800 si riconobbe compiutamente nella sua opera poetica, ne fece un mito, oscillante fra l’ammirazione per l’indubbia abilità retorica delle poesie civili e storiche e patriottiche, la sudditanza nei confronti della prosopopea eroica e nobile del poeta del poeta in un tempo di delusioni e di mediocrità dopo il riflusso degli entusiasmi e degli slanci risorgimentali, la conclamata e apologetica suggestione di una “sanità letteraria e morale” quando già si annunciavano le forme decadenti, morbide e inquiete, e anche la delegazione a una poesia tutta animata da fremiti e da nostalgie eroiche, quale è quella carducciana, del riscatto dal senso di frustrazione e di disinganno proprio delle generazioni post-risorgimentali di fronte alle difficoltà, ai problemi gravosi, alle rinunce, alle mediocrità, alle contraddizioni e ai contrasti del giovane e debole e povero Stato unitario, così delusivo in confronto alle immaginazioni e alle speranze del Risorgimento.
Insomma, la poesia del Carducci è lì a dimostrare che il rapporto di mutuo consenso e rispecchiamento ovvero l’”organicità” di uno scrittore con il suo tempo e i gruppi sociali dominanti in esso sono un bel guaio per la poesia stessa. Si aggiunga che, a un certo punto che coincide, dal più al meno, con l’esperienza delle Odi barbare, il Carducci finì a investirsi totalmente della parte di poeta ufficiale e organico, senza più dubbi e ironie, e, di conseguenza, venne a sollecitare all’estremo la tromba storica e patriottica e ammonitoria e pedagogica, fino a costituirsi una fisionomia sublimemente eroica di maestro e di poeta nazionale, che lo consegnò alquanto imbalsamato alle celebrazioni crociane, alle storie letterarie, alla scuola, al successivo radicale rigetto.
È un’immagine che fa torto alla poesia carducciana, che è molto meno uniforme e compatta e quieta di quanto possano far sospettare sia l’esaltazione del Croce, sia i più recenti recuperi in chiave esistenziale di un “Carducci senza retorica”, ripiegato su se stesso nella meditazione della vecchiaia e della morte. E sarà allora opportuno ripercorrerla senza lasciarsi troppo condizionare (e anche fuorviare) dall’estrema figura di sé che il Carducci lascia con le Odi barbare e con Rime e ritmi…”
Insomma, lasciando per un attimo da parte il valore artistico o il gusto personale per la poesia di Carducci, Carducci stesso diventa documento storico importantissimo per un’intera epoca d’Italia.


Veniamo ora a Pasolini che, in occasione di una stampa di Poesie scelte di Carducci, in Descrizioni di descrizioni scrive:
“…Luigi Baldacci ha fatto il meglio che poteva fare, sia nell’antologizzare che nel presentare questo volume. La scelta è abbastanza eslege per giustificarsi di per se stessa. Viene fuori un Carducci semi-inedito, un po’ come quei poeti “rari” di cui egli stesso amava farsi editore. Le cose meno note di Carducci non sono però meno libresche delle altre; anzi, lo sono di più. Sanno fortemente, addirittura a volte insopportabilmente, di cassetto e di lucerna. Il manierismo carducciano mascherato di vitalità e salute (l’operazione più in mala fede di tutta la letteratura italiana) in queste poesie meno note, che appunto per il loro eccesso manieristico dovrebbero piacerci di più, mostra invece tutta la sua rozzezza e la sua mancanza d’intelligenza.
Brutalmente battute e ribattute dal nostro abile “artiere” queste strofe e queste rime non rimandano ad altro che a se stesse, “idioletto” meschino e devitalizzato. Dietro ad esse il background è costituito da una vita sentimentale completamente priva di interesse, insincera, e un mondo culturale il cui “italianismo” è soffocante e il cui accademismo è provinciale e retorico. Penso a che disgrazia è stata per gli adolescenti della mia età aver dovuto cominciare con l’interessarsi a un poeta così: interesse che poi non si è concluso con l’adolescenza, ma è continuato ancora durante la giovinezza. Quante ore buttate via, quanta energia malamente sprecata, quanta aberrazione, quanta stupidità…”
Ora, legittimamente mi si potrebbe chiedere: ma che minchia ci fai con Carducci? Non stai studiando l’Euro, il capitalismo, la speculazione finanziaria, non stai già leggendo i romanzi di Fulvio Abbate e Luciano Bianciardi? Certamente sì. L’incontro con Carducci, con questa sua poesia che voglio postare, è stato puramente casuale.
Stavo spolverando i libri e nel volume di poesie di Carducci c’era un segnalibro che ho recuperato.
Questo segnalibro si trovava a pagina 98, alla poesia Per la rivoluzione di Grecia.
Ovviamente, trattandosi di una poesia sull’amata Ellade, sulla rivoluzione, sulla libertà e la democrazia non ho potuto fare altro che leggerla e rileggerla e avere voglia di condividerla. Mi è parso poi che, quell’accenno all’invasore straniero, all’oppressore nordico, sia un richiamo all’attualità. Un riferimento a quegli invasori dell’Europa del nord che stavolta invece di usare eserciti e armi convenzionali, stanno usando l’arma della finanza per distruggere l’economia, la libertà e la dignità del popolo greco.
Ok, andiamo a leggere quest’ode che è un inno entusiastico alla rivoluzione greca dell’ottobre 1862, che si chiude però in profonda amarezza vedendo deluse le sue speranze di un’instaurazione repubblicana visto che le grandi potenze straniere avevano imposto alla Grecia un altro re barbaro, il principe Guglielmo di Danimarca.

PER LA RIVOLUZIONE DI GRECIA

Dunque presente nume ancor visiti,
Sacra Eleuteria, la terra d’Ellade,
Che già d’armi e di canti
e d’altari fumanti – ardeva a te?

E là, dal vecchio Pireo, da l’isola
Che la tua gesta racconta a i secoli,
De la fuga tremante
Tu ancor l’amaro istante – insegni a i re?

Oh viva, oh viva! Dovunque i popoli
Tu a l’armi accendi tu i troni dissipi,
Ivi è la musa mia,
De l’agil fantasia – su l’ale io son.

Deh come lieto tra il Sunio e l’isole
Care ad Omero care ad Apolline
L’azzurro Egeo mareggia,
Su cui passeggia – de’ gran fatti il suon!

Infrenin regi le genti barbare,
Grecia li fuga. Veggo Demostene
Su ‘l bavarico esiglio
Il torvo sopracciglio – di spianar.

Ombra contenta ricerca ei l’àgora
Che già ferveva fremeva urtavasi
De la sua voce al suono
Sì come al tuono – il nereggiante mar.

Da poi che il brando nel mirto ascosero
Armodio e il prode fratello unanime
Non mai dì più giocondo
Per Atene su ‘l biondo – Imetto uscì.

Udite… È un altro fanciullo barbaro
Che Atene accatta rege. Nasconditi,
Musa: ritorna in pianto
D’Armodio il canto – a questi ignavi dì.

Bologna, 8 novembre, 1862

Nessun commento:

Posta un commento