giovedì 13 febbraio 2014

Contro la dittatura della lingua inglese


Se c'è una cosa che mi irrita di questi tempi è l'invasione di termini di lingua inglese.
Sono dappertutto e nella maggioranza dei casi o sono inutili e ridicoli o falsificatori di realtà e imprecisi. Che senso ha che d'improvviso si dica "election day"? ma perché? Che senso ha che quel cazzo di Renzi dica "job act"? (a parte che da noi l'act manco esiste).
Soprattutto mi danno fastidio i termini economici che hanno invaso la nostra quotidianità, fastidio poi esacerbato dal fatto che questi termini poi siano in inglese: default, deregulation, ecc. [e deregulation è un termine falso perché invero le cose stanno proprio all'opposto; ma ne riparleremo].
Per questo motivo posto un intervento di Diego Fusaro che mi pare particolarmente adatto. C'è anche un'altra cosa che mi fa girare le palle e riguarda la lingua italiana scritta sul web, ma ne parlerò un'altra volta.
Stiamo vivendo in un tempo paradossale per molti ordini di motivi. Uno di questi sicuramente sta nel fatto che nella nostra cultura italiana si sta imponendo in forme sempre più grossolane e pressanti la necessità di utilizzare la lingua inglese. Sempre più spesso ci viene imposto l’uso della lingua inglese in un oblio totale della nostra identità nazionale e della nostra lingua nazionale. Sempre più spesso parole in lingua inglese si insinuano nel lessico italiano spodestandolo. Sempre più spesso siamo coartati all’utilizzo della lingua inglese.
Premesso che io non ho assolutamente nulla in contrario alla lingua inglese, per l’inglese di Shakespeare e di Wilde nutro una grandissima stima e un profondo interesse; il problema sta altrove, però. In primo luogo sta nel fatto che l’inglese che ci viene imposto non è l’inglese di Shakespeare e di Wilde, ma è l’inglese operazionale del mercato e della finanza, l’inglese dell’austerity e del fiscal compact, dello spread e della global governance.
Cioè l’inglese fatto apposta per metabolizzare il lessico omnipervasivo dell’economia e per diventare sempre più succube di quello che già Gramsci chiamava il “cretinismo economico”.
L’inglese oggi appunto non è quello di Shakespeare e di Wilde, ma è l’inglese dell’economista, del discorso teologico dell’economista che s’impone a livello sempre più radicale e pervasivo.
Ma poi soprattutto l’uso della lingua inglese, il servilismo sempre più in uso rispetto alla lingua inglese che viene accettata come se fosse naturale rinunciare alla propria lingua nazionale e convertirsi all’uso della lingua inglese, un tempo sarebbe stato detto un episodio di imperialismo culturale ed è verissimo, naturalmente; è una forma di imperialismo culturale.
Per quale ragione noi che siamo eredi della grande lingua di Dante, di Giambattista Vico, di Petrarca e di Machiavelli dovremmo abbandonare la nostra lingua madre per parlare l’inglese maccheronico dell’Economist e della global governance. È chiaramente un portato ideologico quello che sta dietro a questa messa in congedo della propria lingua nazionale.
Bisogna essere chiari che oggi la globalizzazione non è altro che il nome pudico all’invasione del mondo da parte della forma merce e l’invasione del mondo da parte della forma merce parla inglese. Si pensi al discorso anglofono dell’economista oggi dominante. Si parla inglese e s’impone un’unica cultura che in verità è la soppressione della cultura; perché la cultura esista occorre che vi siano almeno due culture diverse in dialogo tra loro.
Laddove invece la monocultura della globalizzazione, che io preferisco chiamare “globalitarismo”, a dare proprio l’idea del carattere totalitario della cosiddetta globalizzazione, globalitarismo cioè questo movimento che non lascia nulla esterno e mira a inglobare tutto: le idee, i pensieri, le anime e i corpi. Questa dinamica è quella che impone l’uso della lingua inglese a tutti i popoli del mondo.
Si potrebbe dire che la coscienza critica degli intellettuali è il luogo di resistenza a tutto questo…niente affatto! La coscienza degli intellettuali è il luogo di legittimazione di questa follia organizzata. Diremmo con Shakespeare che c’è del metodo in questa follia.
Gli intellettuali oggi sono il luogo di riproduzione simbolica di questo potere e non certo della sua contestazione. Gli intellettuali oggi metabolizzano il dominio parlando di loro spontanea volontà la lingua inglese, sono ideologicamente innervati da questi processi, pensano che sia più scientifico parlare inglese.
È sempre più abituale, e al tempo stesso sconfortante, vedere convegni di soli italiani, in ambito filosofico ad esempio, che parlano tra loro in lingua inglese.
È una situazione che farebbe ridere se non facesse piangere. Occorrerà, da questo punto vista, maturare una forma di resistenza all’imperialismo culturale e di recupero della propria identità nazionale. Nel nostro caso l’identità di Dante, di Petrarca, di Gramsci, di Gentile, di Machiavelli…la grande identità italiana anzitutto a livello culturale per resistere a questa barbarie che incalza.
Del resto non si può pensare che in ambito letterario, filosofico e in generale culturale, la lingua sia qualcosa di secondario. Forse nelle scienze l’uso dell’inglese permette di comunicare ugualmente bene che la propria lingua nazionale, ma non sicuramente nella filosofia o nella letteratura. Lo sapeva già Nietzsche: nella filosofia, nella letteratura lo stile è parte integrante del contenuto. Non possono essere scissi questi due ambiti. Per cui, appunto, bisogna rifiutarsi di parlare inglese e continuare a parlare la propria lingua nazionale per evitare di essere in un rapporto di subordinazione rispetto a chi l’inglese ce l’ha come madre lingua. Perché chi è italiano o francese deve parlare inglese? Ciascuno parli la propria lingua e coltivi la propria identità nel rispetto delle identità altrui.
Questo è il primo gesto di una vera globalizzazione intesa come universalismo non omologante, ma rispettoso delle differenze. Quello che potremmo anche chiamare con Giacomo Marramao “l’universalismo delle differenze” in cui ciascuno mantiene la propria identità e si relaziona secondo libertà e uguaglianza agli altri popoli che a loro volta mantengono la loro identità.

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