domenica 8 settembre 2013

8 settembre 1943

(da Paolo Viola, Il Novecento, Storia moderna e contemporanea volume quarto)


Il 25 luglio 1943, pochi giorni dopo lo sbarco alleato in Sicilia, Dino Grandi presentò al Gran consiglio del fascismo – l’organo deputato a proporre al re la composizione del governo – un ordine del giorno per la deposizione di Mussolini. L’iniziativa fu appoggiata da Galeazzo Ciano e venne approvata con 19 voti contro 7 e un astenuto. La casa reale aveva già predisposto la sostituzione del duce e nella notte lo fece arrestare. Al potere non fu chiamato un politico: né il fascista “moderato” Grandi, né un antifascista, ma invece il maresciallo Pietro Badoglio, in rappresentanza dei quadri anziani delle forze armate, esautorati dai generali più giovani asserviti al fascismo e responsabili della sconfitta.
La gente esultava nelle strade e nelle piazze. Sembrava finita la guerra e rovesciata definitivamente la dittatura. Non era così, e il peggio doveva ancora arrivare; ma per il momento, malgrado le sofferenze, una grande ventata di speranza percorse il paese. I fascisti sparirono dalla circolazione, si tolsero le camicie nere e le divise della milizia. I quadri militari non seppero più che ordini dare alle truppe. I dirigenti fascisti moderati che avevano provocato la caduta del duce si trovarono anch’essi estromessi dal potere, e i partiti antifascisti, che avevano cercato di sopravvivere nella clandestinità, cominciarono ad uscire allo scoperto, chiedendo un impegno dell’Italia a fianco degli alleati. I busti di Mussolini e i simboli del regime vennero sgombrati dagli uffici, rimossi dalle pubbliche piazze e distrutti.
Tuttavia il fascismo non era ancora finito. Il re diede ordine di reprimere le manifestazioni antifasciste, sperando di contenere la valanga che inesorabilmente avrebbe travolto anche la monarchia, in caso di radicalizzazione dello scontro politico. A Bari l’esercito sparò su una manifestazione antifascista e fece un massacro: 23 morti e 70 feriti. I soldati avevano eseguito un ordine terribile, dato per reprimere i cortei popolari: “non si tiri mai in aria, ma a colpire, come in combattimento”.
D’altra parte il governo non voleva allarmare l’alleato tedesco, benché facesse avviare in segreto le trattative con gli angloamericani per l’armistizio, e si affrettò a proclamare: “La guerra continua”. Seguirono settimane confuse. I tedeschi ebbero il tempo di concentrare un esercito d’occupazione in Italia, mentre il governo italiano trattava più o meno discretamente con gli alleati. Gli inglesi esigevano la resa incondizionata. Insieme ai sovietici rimasero sempre molto intransigenti con gli italiani. Ecco come la pensavano, i primi: “Gli italiani hanno accolto con gioia l’attacco all’Abissinia, l’assalto all’Albania e soprattutto il colpo alla schiena inferto ai francesi. Solo quando la guerra è andata male, hanno cominciato ad avere scrupoli morali”. E i secondi: “Per malvagi che fossero i dirigenti italiani, il popolo italiano non può essere assolto dalle sue colpe. È il popolo italiano che ha prodotto Mussolini”. Gli americani invece erano disposti a concedere un trattamento meno duro, in cambio di un impegno italiano contro la Germania: “Il destino del vostro paese dipenderà da ciò che saprete fare per aiutare la vittoria dei popoli liberi”. Erano influenzati dai loro concittadini di origine italiana e dalle pressioni del Vaticano. Si deve agli USA se l’Italia è stata trattata meglio della Germania e del Giappone, e se una distinzione è stata fatta fra il fascismo e il governo Badoglio.
Finalmente si arrivò, l’8 settembre, all’armistizio col quale l’Italia cambiava schieramento. Non diventava però alleata degli angloamericani, ma “cobelligerante”: cioè faceva la guerra insieme con loro contro i tedeschi, pur senza essere ancora loro alleata, ma anzi, soprattutto dagli inglesi, considerata un nemico da punire; come dire in attesa di essere riabilitata o meno. Lo stesso 8 settembre, il re e Badoglio, scapparono da Roma verso la Puglia, e si misero sotto la protezione degli alleati che negli stessi giorni sbarcavano a Salerno e occupavano l’Italia meridionale. Ancora negli stessi giorni di settembre, un commando tedesco riusciva a liberare Mussolini, detenuto in una località segreta del Gran Sasso, in Abruzzo. Lo portò in Germania, per utilizzarlo alla testa di un governo fantoccio da organizzare nell’Italia del Nord. L’Italia si spaccava in due per un anno e mezzo.
Per l’unità del paese, ancora fragile e recente, per un minimo di orgoglio nazionale era, almeno per il momento, la fine. La stessa identità degli italiani doveva essere ricostruita, rifondata. Da che parte stava l’Italia? Per che cosa si stava facendo la guerra? Il regime era in sfacelo. Il re e il governo erano scappati. L’esercito era allo sbando. I comandi o avevano tradito o venivano passati per le armi dai tedeschi. I soldati cercavano di tornare a casa in qualunque modo, oppure venivano fatti prigionieri e mandati a lavorare in Germania. Al Sud c’era l’esercito anglo-americano, al Nord quello tedesco. Nessuno sapeva più dire perché si era tanto creduto in un governo che aveva portato il paese ad un tale disastro. Nessuno voleva ammettere di essere stato fascista. I poteri pubblici in Italia avevano dato ancora una volta la prova della loro totale assenza: di un’incapacità profonda e radicata, morale e politica, di proteggere e rappresentare la società civile. Era un’altra Caporetto; ma nel ’17 il governo aveva cercato, in qualche modo, di correre ai ripari. Ora si era semplicemente dato alla fuga.

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