domenica 16 giugno 2013

Appunti su Pirandello (5)

(Siccome sto aiutando un amico con la tesina su Pirandello, ho riassunto degli appunti sullo scrittore siciliano presi dagli scritti del grande Giovanni Macchia. Questa è la quinta parte, in totale saranno sei.)

Il “dispositivo” della novella, genere in cui s’esercitò dagli inizi della sua carriera fino, con vuoti e ritorni sempre più fiochi, a pochi anni prima della morte, servì a Pirandello anzitutto per saggiare attraverso scorci violenti o incerti spiragli, la ricchezza, la vastità, la densità, più che la qualità del “mondo” da rappresentare. Uno strumento di conoscenza, messo in opera con costante e tranquilla sicurezza: come di uno cui non spetti altro che guardare, che attendere. Nell’itinerario di Pirandello narratore dall’inizio fino alla maturità non si denunciano momenti d’incertezza e di crisi. Egli corre per la sua strada, come sulle linee di ben bilanciate e lucide rotaie. Le stroncature non lo smuovono perché, sembra, ha altro cui pensare. La proliferazione ininterrotta di fatti, di eventi che formicolano nelle sue novelle e che provocano risse, pianti, dolori, amori, risa, indica entro quale ridda di voci l’umanità battesse davvero alla sua porta, come egli dice dei suoi personaggi.
Nessun altro scrittore dell’epoca denuncia un così vivo e diretto rapporto con il “caso” umano, in quel suo aggrovigliato ragionare, rendersi conto, domandare, interrogare, in quei suoi tentativi di sistemazione dialettica, in quel suo passaggio dal “caso” al “problema”.
La prima impressione che si riceve dalla lettura delle novelle riguarda l’invenzione. Si ripeterebbe volentieri una frase: qui “l’invenzione denuncia se stessa. C’è qualcuno che inventa”. E si sa che chi inventa non va troppo per il sottile. Anche la natura non ha tempo per i capolavori che le nascono quasi per caso. E questo accordare il suo ritmo a quello della natura, impedisce all’autore sforzi in senso ascensionale, verso qualcosa di perfettibile cui affidare tutto se stesso. Il concetto di “vita nuda”, cui rimase fedele, implicava la visione, come egli disse, di una materia senz’ordine apparente, irta di contraddizioni, quale appunto si conviene ad un umorista, lontanissima dal congegno ideale delle “comuni concezioni artistiche, in cui tutti gli elementi, visibilmente, si tengono a vicenda e a vicenda cooperano”. Il grande artista tende all’armonia attraverso il “capolavoro”, dalla ferma oggettività formale, ove tutte le incrinature vengano saldate nel bronzo: luogo di riferimento e di protezione per l’umanità infreddolita dalle tenebre, immersa nel buio.
Pirandello costruisce pezzi disarmonici. Utilizza la dissonanza come scatto di ripresa per una soluzione che viene di continuo rimandata. Il suo ideale consisterebbe nel raggiungere una scrittura di cose, perché il gusto della forma, se egli lo perseguisse, stonerebbe con la sua arida e nuda concezione del mondo, suonerebbe ambiguo e falso compiacimento, orribile “letteratura”. Nei momenti di più scarna oggettività non una novella sulle cose egli desidererebbe scrivere, ma la cosa stessa. E invece dietro quella cosa s’indovinano risonanze vacue e dolorose. C’è il vuoto, quel vuoto sospeso pirandelliano tanto più greve quanto più pesanti, densi gli oggetti che sono stati scelti ad evocarlo. Non s’intravedono tappe possibili di un cammino per cui il caos diventi cosmo; ma figurazioni apparenti di un falso cosmo che ricominci ad essere caos. Si aprono le infinite suggestioni dell’anarchia.
La stessa sua sintassi ripugna dalle forme concluse e sonore, da tutto ciò che si configurerebbe come ineccepibile e durevole figura stilistica. Piega il discorso a una discontinuità che gli permetta di riprodurre mimeticamente gli aspetti della realtà umana, giungendo ad una forma di teatralizzazione del linguaggio, se così può dirsi, quale forma spinta di “dialettalità”. L’uso del parlato asintattico, della lingua quotidiana, opposta alla “lingua dei morti” che dorme nei grandi testi della tradizione letteraria, la stessa banalità di un lessico, preso nei suoi valori contemporanei, privo di profondità storica, e l’uso degli esclamativi, degli interrogativi, delle interiezioni e degli avverbi e degli infinitivi, dettero indubbiamente la migliore sostanza di ardente sorpresa al suo teatro, fino all’afasia, alle suggestive interruzioni della parola. Ma non fino al punto che in quel celebre stile di cose (di cui vedeva l’esempio più grande in Giovanni Verga), di cose che “nascono e vi si pongono davanti sì che voi ci camminate in mezzo, vi respirate dentro, le toccate: pietre, carne, quelle foglie, quegli occhi, quell’acqua”, in quello stile che testimonia “lo sforzo lucido che deve durare chi voglia esprimere nudamente delineando le dure sagome delle cose da dire”, non s’inserisca, come il folletto di una rappresentazione popolare, il piacere dell’effetto. La teatralizzazione del linguaggio s’aggrava in istrionismo in quel rapporto tra l’effetto e la parola, come di una prosa che si appoggi, teatralmente, sulle stesse inflessioni della voce.
Due sono essenzialmente gli ambienti in cui il congegno della novella ha modo di scattare; da cui i fatti umani, in massima parte privati, bui, possono essere estratti, interpretati, come per opera di un curioso avvocato che compulsi in archivio polverosi registri: Roma e la Sicilia.
La Roma di Pirandello è l’esatto rovescio della Roma del Piacere di d’Annunzio. Letterariamente, Roma era per d’Annunzio l’orto d’Academo: per Pirandello un portacenere, di materia vuota. D’Annunzio trasformava le chiede barocche, oscurate dal tempo, in pezzi d’oreficeria, i palazzi patrizi in grandi clavicembali d’argento; Pirandello mette un certo impegno a voltar loro le spalle. L’arte e tutta la grande tradizione dell’estetismo a lui contemporanea, da Pater a Ruskin, a Wilde, a Proust, sembra che non abbia diritto d’ingresso nel suo mondo, ove magre citazioni di Raffaello e di Tiziano sono soltanto pigre reminiscenze scolastiche. Paesaggi romani, visti dall’alto, sembrano cavati fuori per l’occasione da qualche vecchio baedeker. Certi notturni, a piazza San Pietro, diventano notturni di morte, in cui è viva soltanto l’acqua delle fontane e tutto il resto è quasi spettrale “nella silenziosa immota solennità”. E che Roma sia una città morta, chiusa nel sogno del suo maestoso passato, e che non voglia saperne di “questa vita meschina che si ostina a formicolarle d’intorno” è certezza per Pirandello inveterata. Nessuna malinconia decadentistica, fascinosa: ma una pesante tristezza esistenziale, che si nutre di una realtà che la città stessa rigetta. La Roma moderna, umbertina, quella di via Alessandria o dei quartieri della stazione, è come la “nausea” dell’altra Roma che non esiste più. In essa non c’è posto per balli a corte o nelle ambasciate: non c’è tempo per sentir musica di Bach nell’oratorio di via Belsiana, né per aspettar le fanciulle passare sulla piazza di Spagna infiorata. Ed è ragione di autenticità che egli non sia ricorso alle consuete “rispolverature” che fanno bello e che costano poco.
La società siciliana fu per Pirandello un condensato, entro specchi deformati, della società umana: un luogo di prove, di esperimenti e di visioni. In quello specchio curvo, ove le immagini apparivano lancinate in un’espressione non di rado grottesca, e in cui s’operava implicitamente la critica e il superamento del verismo, si rifletteva l’arretratezza di una società, vincolata ai pregiudizi e alle superstizioni, al parere più che all’essere, dilaniata dall’amore della “roba”, chiusa nell’ordine sacro della famiglia. Il nucleo famigliare è l’oscuro germe da cui nascono gli infiniti casi pirandelliani, in combinazioni sempre nuove e fortuite. È nella famiglia che le forme della vita e della morte appaiono strette, legate fino a togliere il respiro; è in essa che coesistono il presente, il passato e l’avvenire, i vivi e i morti, i vecchi e i giovani così che anche il romanzo che porta tale titolo, sembra l’allargamento, su un piano politico-sociale, di quel rapporto. Una società sottosviluppata ha di fronte lo spettro della miseria, e pur coltiva umoristicamente l’atavico e insulso sentimento dell’onore. “Iettatori” e “cornuti”, eletti a personaggi di prima grandezza, vengono patentati e disprezzati, mentre la terra, senza più nulla di turistico, respinge gli esseri umani: una terra bollente e arida, di vulcani, di zolfo e di polvere, ove le colonne dei templi greci guardano impassibili, entro l’ordine musicale scandito sul cielo puro, i disastri del caos, le fatiche degli uomini, i delitti della miseria, del sangue, delle spoliazioni, delle ruberie; una terra ove gli antichi pastori di Teocrito sono divenuti i briganti. Eppure, al di là di tutto, nell’uomo sempre più solo s’avvera il ritrovamento di una forza primigenia, dionisiaca, un’energia vitale che il dolore, le miserie civili non hanno fiaccato.
Ma Roma e la Sicilia, nelle novelle e nei romanzi, non divengono che rare volte teatro della condizione umana. Più spesso restano teatro della condizione sociale; ché per l’umorista Pirandello è la società che dà luogo al personaggio e al suo dramma. Egli segue ansiosamente le immagini della vita costretta a divenire teatro, ma non concepisce “l’uomo solo” in senso pascaliano. Se il personaggio tenterà di risalire gli anelli della catena del vivere sociale per arrivare per arrivare a quell’uno, scoprirà che “la solitudine non è mai con voi, è sempre senza di voi”. E se i suoi “eroi” non diventano personaggi crepuscolari, dai contorni indecisi, impegnati in una delectatio morosa, è che lo stato sociale di negatività fallimentare in cui vegetano è in stretto rapporto con una forza di vita repressa, che può scoppiare nel dolore, nella smorfia, nella pazzia, nell’insospettata sensualità, da una vita psichica sotterranea e infelice, in improvvisi paesaggi di una lontana e immensa felicità. La cartella clinica di questi “eroi”, letta in profondità, farebbe scoprire oscure ragioni delle loro nevrosi o dei loro isterismi e la gelosia e la pazzia: la pazzia, grande tema pirandelliano, che esercita su di lui un’attrazione d’orrore e di sgomento.
“Più geloso di una tigre, il padre le aveva inculcato fin da bambina un vero terrore degli uomini.” “Il corpo di lei nell’incoscienza prese a fremere tutto, d’un fremito voluttuoso.” Ferma a quell’inizio, un’ottima e castissima sposa si prepara a una irrefrenabile crisi sessuale. E sarà il sogno a svelarle la forza dei sensi, protetti fin allora dalla corteccia troppo spessa del suo pudore. Il grande tema simbolista del viaggio, dell’invito verso la luce di una terra lontana, un’isola, si apre nella stanza, ricca di tetri oggetti, ove il figlio veglia la madre moribonda, addormentandosi con sotto gli occhi il libro di geografia della figliuola, aperto a pagina 75. La testa sul libro, sgorbiato nei margini e con una bella macchia d’inchiostro cilestrino su l’emme di Giamaica, sogna felice, accanto alla madre che muore, d’essere stato nell’isola di Giamaica, “dove sono le Montagne Azzurre dal lato di tramontana…”: sviluppo narrativo in chiave piccolo-borghese della Vie antérieure o della Chevelure di Baudelaire. La bellezza del mondo, nel ricordo di una vita intatta, viene ricondotta nella stanza del computista, ricolma di note, libri mastri, partitari, stracciafoglia, dal fischio di un treno: “quasi da un sepolcro scoperchiato s’era ritrovato a spaziare anelante nel vuoto arioso del mondo che gli si spalancava enorme tutt’intorno.” Sogno burocratico simile a quelli di qualche dolente e grigio personaggio di Maupassant. Morte-vita allacciate, l’una che rinnega e insieme esalta l’altra. La morte nelle cose, quell’odore che “cova nei luoghi che hanno presa la polvere, dove la vita è appassita da tempo” eppur immessa nell’ordine e regolata da utili e uggiose abitudini, e poi lo scatenarsi dell’istinto fino alla tragedia, come per una forza quasi demoniaca, perché “la vita”, dice un personaggio di Ciascuno a suo modo, “dentro e fuori di noi, - andateci, andati appresso! – è una tale rapina continua, che non han forza di resistervi neppure gli affetti più saldi”.
È in questa dialetti che s’inserisce il momento dell’anarchia assoluta, la “bella gioia spaventosa” della distruzione: in atti di maniaci delusi che covano odio spietato e disprezzo verso l’umanità. Distruzione del mondo come in Svevo, ma senza quell’enfasi cosmica profetica e pura, di liberazione dalla materia come malattia. Far tabula rasa di ogni cosa, dei piccoli bruti che in senso quasi nietzschiano vivono per vivere, senza sapere di vivere. Sognare personaggi che siano cioè simboli della distruzione. “La città si svegliò sotto l’incubo tremendo d’una epidemia senza scampo scoppiata fulmineamente. Novecentosedici morti in una sola notte….” È la propria metamorfosi guardata in uno specchio ilare e spaventoso. “L’epidemia! L’epidemia! Non ero più io; ora finalmente lo capivo; ero l’epidemia, a tutte larve, ecco, tutte larve le vite umane che un soffio portava via” (Soffio). Tale potenza di annullamento terrorizza e affascina Pirandello. Quale gusto “far saltare tutto il mondo con una dinamite”! E la gradazione degli effetti di questo demone della perversità, della crudeltà pura (La mosca) raggiunge le zone nebulosa dell’inconscio (Il chiodo; Cinci), mostrando una compassione che non è pietà, una pietà che non è amore.

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