martedì 7 maggio 2013

Braque, Il giorno e la notte

Qualche settimana fa, accompagnai mia sorella a fare un esame all'Università.
L'accompagnai perché lei non se la sentiva molto di guidare, ma soprattutto perché mentre lei sosteneva l'esame io tenevo compagnia alla mia adorabile nipotina.
Al ritorno, dalle parti della stazione di Montesanto, vidi un uomo male in arnese che vendeva dei libri su un muretto. Accostai e cominciai a guardare i libri. Trovai niente di meno che il volume di Bolano Tra parentesi a metà prezzo. Mia sorella, vedendomi così contento, decise di regalarmelo.
Da quel volume ho preso il pezzo in cui Bolano recensisce Il giorno e la notte di Braque.
Mi piace condividerlo e di sicuro parlerò ancora sia di Braque che di Bolano e spero, soprattutto, di riuscire a procurarmi il delizioso volumetto di Geroges.

Braque aveva settant’anni nel 1952, quando uscì Il giorno e la notte, libro che non supera le cento pagine. Il minimo che se ne possa dire è che si tratta di un libro prezioso, nel senso letterale del termine, fatto di annotazioni, pensieri, aforismi che il pittore va sgranando dal 1917 fino al 1952 e che ovviamente non costituiscono la principale delle sue occupazioni, anzi, ed è proprio questo a rendercele così interessanti, e a conferire al libro l’alone di occupazione segreta, non esclusiva e tuttavia esigentissima.
Braque, insieme a Juan Gris e Picasso, formò la santissima trinità del cubismo, nella quale il ruolo di Dio Padre era appannaggio assoluto di Picasso, e il ruolo di Figlio, un figlio ancora oggi un po’ incompreso, era affidato al sorprendente Juan Gris, che in un’altra opera teatrale avrebbe potuto interpretare senza problemi un ciclope, mentre il destino riservava a Braque, il solo francese del trio, il ruolo di Spirito Santo che, come si sa, è il più difficile di tutti e quello che strappa al pubblico meno applausi. Il giorno e la notte sembra darne testimonianza, con appunti di questo tenore: “In arte vale un solo argomento, quello che non si può spiegare”. “L’artista non è un incompreso, è uno sconosciuto. Lo si sfrutta senza sapere chi è”. “Non troveremo mai riposo: il presente è perpetuo”.
Alcune delle sue intuizioni, come quelle di Duchamp o di Satie, sono infinitamente superiori a quelle di molti scrittori del suo tempo, perfino di alcuni la cui principale occupazione era pensare e riflettere: “Ogni epoca limita le proprie aspirazioni. Di qui nasce, non senza complicità, l’entusiasmo per il progresso”. “Pensandoci bene, preferisco quelli che mi sfruttano a quelli che mi imitano. I primi hanno qualcosa da insegnarmi”. “L’azione è una catena di atti disperati che permette di conservare la speranza”. “È un errore rinchiudere l’inconscio in un cerchio e collocarlo ai confini della ragione”. “Bisogna scegliere: una cosa non può essere vera e verosimile nello stesso tempo”.
Umorista e insieme senza speranza (proprio come è religioso e insieme materialista, o come sembra muoversi troppo in fretta mentre in realtà rimane immobile come una montagna o una tartaruga), Braque ci offre di questi gioielli: “Ricordo del 1914: il generale Joffre si preoccupava unicamente di ricostruire i quadri di battaglie dipinti da Vernet”. “La sola cosa che ci rimane è quella che ci tolgono, ed è la cosa migliore che possediamo”. “Con l’età, l’arte e la vita si fondono in una cosa sola”. “Solo chi sa quello che vuole sbaglia”.
Il libro si chiude con un’appendice di non scarso interesse, il quasi manifesto Pensieri e riflessioni sulla pittura, pubblicato sul numero 10 di “Nord-Sud” nel 1917. Ma io preferisco congedarmi da questo libro magnifico con una delle sue tante intuizioni: “Diffidiamo: il talento è prestigioso”.

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