venerdì 30 novembre 2012

Madness ovvero ma lascia stare


Avete ascoltato Madness dei Muse? No? Peccato perché è davvero una grande canzone e se lo dico io ci potete credere. Quando io decreto la bellezza di una canzone o di una poesia o di un romanzo vi dovete fidare. Non mi sbaglio mai su queste cose. O in queste cose, non sono sicuro di come si dica.
Sono un esperto di cose belle e non vendo questa mia "conoscenza", la regalo. Quindi sono pure imparziale e disinteressato perché non mi entra mai niente in tasca a promuovere ciò che io trovo bello.
I, I can’t get this memories out of my mind,
it’s some kind of madness, it started to evolve
I, I tried so hard to let you go
But some kind of Madness is swallowing me whole.
I have finally realized
What you mean
Non mi sei mai uscita dal cervello. Ti penso continuamente. Ho provato a lasciarti andare, ma non ci sono riuscito. Anzi, non ho voluto. Il mio sentimento d'amore si ciba soprattutto di storie non concluse, di persone sbagliate e casini. E tu rappresenti tutto ciò alla perfezione.
And now, I need to know, is this real love?
Or is it just Madness keeping us afloat.
But when I look back at all the crazy fights we had
It was like some kind of Madness, was taking control.
And I have finally realized
What you need
Non era vero amore, era solo tutto figlio della confusione e della solitudine. Divina pazzia in comune. E non ti ho mai capito, non ti capisco, tu non sei fatta per me e mi piace tremendamente tutto ciò.
And I have finally seen the light
And I have finally realized
I need your Love
I need your Love
Come to me, just in a dream
Come on and rescue me

Yes I know, I can’t be wrong
And maybe I’m too headstrong
Our love is…
m-m-m-m-m-mad-mad-mad
m-m-m-m-m-mad-mad-mad
Madness
Sono in alto mare con te, sono un naufrago che manda affanculo l'unica nave che in due anni si presenta a prestarmi soccorso. Io NON voglio essere salvato. Io NON voglio capire, NON voglio essere saggio.
Io voglio solo...
Vieni da me, almeno in sogno
Vieni a salvarmi

giovedì 29 novembre 2012

L'abolizione del lavoro (2)


II lavoro si fa beffe della libertà. La linea ufficiale è che a tutti sono riconosciuti dei diritti, e che viviamo in una democrazia. Ma esistono individui meno fortunati che non sono così liberi come noi e vivono in Stati di polizia. Costoro sono delle vittime costrette ad eseguire continuamente ordini senza discussioni, per quanto essi possano essere arbitrari.
Le autorità li sorvegliano strettamente. I burocrati controllano anche i più piccoli dettagli della loro vita quotidiana. I funzionari che li comandano a bacchetta, rispondono solo ai loro diretti superiori, siano essi pubblici o privati. Il dissenso e la disobbedienza vengono entrambi repressi. Gli informatori riferiscono regolarmente alle autorità. Ovviamente tutto ciò rappresenta una situazione terrificante.
E così è, sebbene questa non sia altro che la descrizione di un moderno luogo di lavoro. I progressisti, i conservatori, e i libertari che si lamentano del totalitarismo sono falsi e ipocriti. C'è più libertà in una dittatura moderatamente destalinizzata di quanta ve n'è in America in un ordinario luogo di lavoro. In un ufficio o in una fabbrica trovi lo stesso genere di gerarchia o di disciplina proprio di una prigione o di un monastero. Infatti, come Foucault ed altri hanno
dimostrato, prigioni e fabbriche nascono all'incirca nello stesso periodo, e i loro gestori consapevolmente si scambiano fra loro le tecniche di controllo. Il lavoratore è uno schiavo parttime.
Il datore di lavoro decide quando bisogna comparire sul luogo di lavoro e quando bisogna andarsene, e cosa si deve fare in quel lasso di tempo. Ti dice quanto lavoro devi fare e a quale ritmo.
Ha la facoltà di spingere il suo controllo fino ad estremi umilianti, stabilendo, se lo desidera, quali vestiti devi indossare e quanto spesso puoi recarti al gabinetto. Con poche eccezioni può licenziarti per una ragione qualsiasi, o anche per nessuna. Può spiarti facendo uso di informatori ed ispettori, compila un dossier per ogni impiegato. L'atto di ribattere viene chiamato "disobbedienza", proprio come se il lavoratore fosse un bambino impertinente. Egli non solo può licenziarti, ma può anche farti perdere il diritto al sussidio di disoccupazione. Senza necessariamente avallare un tale atteggiamento in rapporto ai bambini stessi, è degno di nota che
a scuola e a casa essi ricevono lo stesso trattamento, giustificato nel loro caso da una supposta immaturità. E che cosa fa venire in mente tutto ciò riguardo i loro genitori o i loro insegnanti in quanto lavoratori?
Per decenni, e per la maggior parte delle loro vite, l'umiliante sistema di dominio che ho descritto regola più della metà del tempo che la maggior parte delle donne e la stragrande maggioranza degli uomini passano in stato di veglia. In rapporto a certi scopi non è troppo fuorviante chiamare il nostro sistema democrazia, oppure capitalismo, o meglio ancora industrialismo, ma i termini più appropriati sarebbero fascismo di fabbrica e oligarchia d'ufficio.
Chiunque dica che certe persone sono "libere" mente o è uno sciocco. Tu sei quello che fai: se fai un lavoro stupido, noioso, monotono, hai buone probabilità di diventare stupido, noioso e monotono. Il lavoro è la migliore spiegazione per il cretinismo servile da cui siamo circondati, ancor più dei pur potenti meccanismi di istupidimento rappresentati dalla televisione e dal sistema di istruzione. Gente irreggimentata per tutta la vita, sospinta al lavoro dalla scuola, rinchiusa nella famiglia all'inizio della loro vita e in una casa di cura alla fine, non può che essere assuefatta alla gerarchia e mentalmente schiava. Ogni attitudine all'autonomia risulta talmente atrofizzata che la paura della libertà è tra le poche fobie che in loro appaiono razionalmente fondate. L'addestramento alla dedizione verso il lavoro ha luogo nelle loro famiglie di provenienza, ma anche nell'ambito della politica, della cultura, e in ogni altro campo di attività, riproducendo così il sistema in più di una maniera.
Una volta che la vitalità della gente sia stata loro sottratta nell'ambito del lavoro, è molto probabile che costoro si sottometteranno alla gerarchia e agli specialisti in rapporto ad ogni altra attività. Ci sono abituati.
Siamo così immersi nel mondo del lavoro che non possiamo renderci completamente conto di quanto esso determini la nostra esistenza. Dobbiamo così affidarci ad osservatori esterni, prodotto di altre epoche e di altre culture, se vogliamo essere in grado di percepire i pericoli e il carattere patologico della nostra presente condizione. Nel nostro passato vi fu un'epoca in cui l' "etica del lavoro" sarebbe stata incomprensibile; e forse Weber era sulla strada giusta quando collegò la sua comparsa all'avvento di una nuova religione, il calvinismo, poiché se tale etica fosse comparsa oggi invece di 4 secoli fa sarebbe stata appropriatamente e immediatamente riconosciuta come il prodotto di una scelta.
Comunque stiano le cose, possiamo solo far ricorso alla saggezza degli antichi se vogliamo collocare il lavoro in una prospettiva storica: Gli antichi considerarono il lavoro per ciò che effettivamente è, ed il loro punto di vista prevalse, nonostante le eccentricità calviniste, fino a quando le loro idee non vennero cancellate dall'industrialismo, ma non prima di ricevere l'approvazione dei suoi stessi profeti.
Ammettiamo per un momento la falsità della tesi secondo la quale il lavoro riduce l'uomo ad una condizione di insensata sottomissione. Ammettiamo pure, a dispetto di ogni plausibile visione della psicologia umana e dell'ideologia degli imbonitori, che il lavoro non abbia alcun effetto sulla formazione del carattere. E conveniamo ancora che il lavoro non sia così noioso, faticoso e umiliante come tutti ben sappiamo esso sia nella realtà.
Anche se così fosse, la realtà del lavoro mostrerebbe ancora quanto siano derisorie tutte le prospettive a carattere umanistico e democraticistico ad esso connesse, e ciò proprio in quanto esso usurpa una parte così rilevante del nostro tempo. Socrate disse che i lavoratori manuali diventano dei cattivi amici e pessimi cittadini, e ciò in quanto non dispongono del tempo necessario all'adempimento dei doveri inerenti all'amicizia e alla cittadinanza. Aveva perfettamente ragione. A causa del lavoro, qualunque cosa facciamo la facciamo guardando l'orologio. Ciò che è "libero" nel cosiddetto tempo libero, è nient'altro che un insieme di attività paralavorative che oltre tutto non costano nulla al padrone. Infatti, il tempo libero è dedicato soprattutto a prepararsi al lavoro, a recarsi al lavoro, a tornare dal lavoro, a riposarsi dal lavoro. Il tempo libero è un eufemismo che allude al particolare carattere del lavoro come fattore di produzione, costituito dal fatto che esso non solo provvede a sue spese al proprio trasporto al e dal posto di lavoro, ma si assume l'onere principale per quanto concerne la propria manutenzione e la relativa messa a punto. Il carbone e l'acciaio questo non lo fanno. Il tornio e la macchina da scrivere neppure. Mentre i lavoratori sì. Nessuna meraviglia se Edward G. Robinson in uno dei suoi film di gangster proclama: "Il lavoro è per gli imbecilli!".
Sia Platone che Senofonte attribuiscono a Socrate - ed ovviamente siamo d'accordo con lui - una profonda consapevolezza circa gli effetti distruttivi del lavoro sul lavoratore, sia in quanto cittadino che come essere umano. Erodoto considerava il disprezzo per il lavoro come un tratto caratteristico della Grecia classica al culmine della sua fioritura. Traendo dalla civiltà romana un solo esempio, osserviamo che Cicerone affermava: "Chiunque offra il suo lavoro in cambio di
denaro vende se stesso, e pone sé medesimo nel novero degli schiavi". Oggigiorno una tale franchezza è molto rara, ma le attuali società primitive, quelle che noi guardiamo dall'alto in basso, ci mandano messaggi che hanno influenzato gli antropologi occidentali. I Kapauku della Nuova Guinea occidentale, secondo Posposil, hanno una concezione equilibrata della vita, e coerentemente ad essa lavorano solo a giorni alterni, essendo il giorno del riposo destinato "a riguadagnare il potere perduto e la salute".
I nostri antenati, ancora alla fine del XVIII secolo, quando già si erano inoltrati lungo il cammino che porta alla nostra triste situazione attuale, almeno erano consapevoli di ciò che noi abbiamo dimenticato, cioè del lato oscuro dell'industrializzazione.
La loro osservanza riguardo il "Santo Lunedì" - cioè la pratica de facto
della settimana di cinque giorni 150-200 anni prima della sua instaurazione per legge - era la disperazione dei primi proprie-tari di industria. Fu necessario molto tempo prima che essi accettassero la tirannia della sirena, strumento che precede l'orologio a sveglia. Infatti fu necessario per un paio di generazioni sostituire gli adulti maschi con donne abituate all'obbedienza, e bambini che potevano essere plasmati secondo le necessità della produzione industriale. Perfino i contadini sfruttati nell'ancien regime riuscivano a strappare una considerevole quantità di tempo ai proprietari terrieri. Secondo Lafargue, un quarto del calendario dei contadini francesi era dedicato alle domeniche e ad altre festività, e le cifre, desunte da Chayanov relative a villaggi della Russia zarista, che è arduo qualificare come società progressista, mostrano analogamente che i contadini dedicavano al riposo un quarto o un quinto dei loro giorni.
In rapporto al livello di produttività siamo ovviamente molto indietro rispetto a queste società arretrate. I mugiki sfruttati sarebbero molto stupiti del fatto che vi sia ancora qualcuno di noi che lavori.
E noi dovremmo condividere tale stupore.
Comunque, al fine di comprendere pienamente la profondità del deterioramento della nostra condizione consideriamo ora la vita dell'umanità primitiva, senza stato e proprietà, quando conducevano un'esistenza errabonda come cacciatori e raccoglitori. Hobbes presume che la loro vita fosse pericolosa, brutale e breve.
Anche altri sostengono che allora la vita fosse una lotta continua e disperata per la sopravvivenza, una guerra contro una Natura ostile, con la morte e ogni genere di sventure in agguato per i meno fortunati, o per chiunque si fosse rivelato inadatto
alla sfida posta dalla lotta per l'esistenza. In realtà tale idea rappresenta nient'altro che una proiezione del timore diffuso nell'Inghilterra di Hobbes ai tempi della Guerra Civile, e proprio di comunità non abituate a fare a meno dell'autorità, riguardo un possibile crollo della struttura dello Stato. I connazionali di Hobbes avevano già incontrato forme alternative di società che
mostravano altri modi di vita - particolarmente in Nord America - ma queste erano
già troppo lontane dalla loro esperienza per essere comprensibili. (I ceti inferiori, più vicini alle condizioni degli Indiani, potevano comprendere meglio questo modo di esistenza e spesso ne furono attratti: durante tutto il XVII secolo i coloni inglesi abbandonarono il loro mondo unendosi alle tribù indiane, oppure quando vennero catturati in guerra, rifiutarono di tornare. Mentre gli indiani non si rifugiavano presso gli insediamenti dei bianchi, non più di quanto i tedeschi saltassero il muro di Berlino da ovest verso est). Il darwinismo, nella versione "della sopravvivenza del più adatto" - cioè quella di Thomas Huxley - costituisce più una fedele immagine delle condizioni economiche dell'Inghilterra vittoriana di quanto fosse della selezione naturale, come l'anarchico Kropotkin dimostrò nel suo libro Il Mutuo Appoggio, un fattore dell'evoluzione. (Kropotkin fu uno scienziato - un geografo - che ebbe modo, del tutto involontariamente, di sperimentare a fondo il lavoro dei campi quando venne esiliato in Siberia: sapeva di cosa stava parlando). Come la maggior parte delle teorie sociali politiche, ciò che Hobbes e i suoi successori hanno raccontato appare null'altro che qualcosa di simile ad una autobiografia non autorizzata. L'antropologo Marshall Sahlins, studiando i dati disponibili sugli attuali cacciatori-raccoglitori, confutò il mito hobbesiano in un articolo intitolato "L'originaria società dell'abbondanza". Infatti, essi lavorano molto meno di noi, ed è difficile distinguere il loro lavoro da ciò che noi chiamiamo gioco. Sahlins conclude che "cacciatori e raccoglitori lavorano meno di noi; la ricerca del cibo, invece di essere un lavoro continuo, è un'attività saltuaria mentre dispongono di molto tempo da dedicare al riposo, e la quantità di tempo consacrata al sonno da ciascun individuo nel corso di un anno è molto maggiore che in qualsiasi altro tipo di società".

mercoledì 28 novembre 2012

L'abolizione del lavoro (1)


Nessuno dovrebbe mai lavorare.
Il lavoro è la fonte di quasi tutte le miserie del mondo.
Quasi tutti i mali che si possono enumerare traggono origine dal lavoro o dal fatto che si vive in un mondo finalizzato al lavoro. Per eliminare questa tortura, dobbiamo abolire il lavoro.
Questo non significa che si debba porre fine ad ogni attività produttiva.
Ciò vuol dire invece creare un nuovo stile di vita fondato sul gioco; in altre parole, compiere una rivoluzione ludica. Nel termine "gioco" includo anche i concetti di festa, creatività, socialità, convivialità, e forse anche arte.
Per quanto i giochi a carattere infantile siano già di per sé apprezzabili, i giochi possibili sono molti di più. Propongo un'avventura collettiva nella felicità generalizzata, in un'esuberanza libera ed interdipendente. Il gioco non è un'attività passiva. Indubbiamente noi tutti necessitiamo di dedicare tempo alla pigrizia e all'inattività assolute molto più di quanto facciamo ora, e ciò senza doversi preoccupare del reddito e dell'occupazione; ma è anche vero che, una volta superato lo stato di prostrazione determinato dal lavoro, pressoché ognuno desidererebbe svolgere una vita attiva. L'oblomovismo e lo stakanovismo sono due facce di una stessa moneta falsa. La vita ludica è totalmente incompatibile con la realtà attuale. E allora tanto peggio per la "realtà", questo buco nero che succhia la residua vitalità da quel poco che ancora distingue la nostra vita nella semplice sopravvivenza.
E strano - o forse non tanto - che tutte le vecchie ideologie appaiano conservatrici, e ciò proprio in quanto tutte danno credito al lavoro. Per alcune di esse, come il marxismo, e la maggior parte delle varianti dell'anarchismo, la loro fede nel lavoro appare tanto più salda in quanto non vi è molto d'altro cui esse prestino fede.
I progressisti dicono che dovremmo abolire le discriminazioni sul lavoro. Io dico che dovremmo abolire il lavoro. I conservatori appoggiano le leggi sul diritto al lavoro. Allo stesso modo dell'ostinato genero di Karl Marx, Paul Lafargue, io sostengo il diritto alla pigrizia. La sinistra è a favore della piena occupazione. Come i surrealisti - a parte il fatto che sto parlando seriamente - io sono a favore della piena disoccupazione.
I trotskisti diffondono l'idea di una rivoluzione permanente. Io quella di una baldoria permanente. Ma se tutti gli ideologi, così come accade, sono a favore del lavoro - e non solo perché hanno in mente di far fare ad altri la parte di esso che loro compete - tuttavia sono stranamente riluttanti ad ammetterlo. Continuano a disquisire all'infinito su salari, orari, condizioni di lavoro, sfruttamento, produttività e profitto.
Parleranno volentieri di qualunque argomento tranne che del lavoro stesso. Questi esperti, che sempre si offrono di pensare per noi, raramente ci renderanno partecipi delle loro conclusioni riguardo al lavoro, e ciò malgrado il rilievo che esso assume nella vita di noi tutti. Fra di loro arzigogolano sui dettagli. Sindacati ed imprenditori concordano sul fatto che sia necessario vendere tempo della nostra vita in cambio della sopravvivenza, benché poi contrattino sul prezzo.
I marxisti pensano che dovremmo essere diretti dai burocrati. I "libertari" da uomini d'affari. Le femministe non si pongono il problema di quale forma debba assumere la subordinazione, purché i dirigenti siano donne. Chiaramente questi mercanti di ideologie mostrano un notevole disaccordo su come dividersi le spoglie del potere. Ma è ancora più chiaro che nessuno di loro ha nulla da obiettare sul potere in quanto tale, e che tutti costoro vogliono che noi si continui a lavorare.
Forse vi state chiedendo se stia scherzando o parlando seriamente. L'uno e l'altro. Essere ludici non significa essere incongruenti. Il gioco non è necessariamente un'attività frivola, ancorché l'essere frivoli non significhi essere superficiali: molte volte è necessario prendere seriamente ciò che appare frivolo. Vorrei che la vita fosse un gioco, ma che la posta in gioco fosse alta. Vorrei continuare a giocare per sempre.
L'alternativa al lavoro non è solo l'ozio. Essere ludici non è essere fancazzisti. Sebbene ritenga molto apprezzabile il piacere del sonnecchiare, questo non è mai così appagante come quando fa da pausa rispetto ad altri piaceri e distrazioni. E non sto nemmeno esaltando quella valvola di sfogo comandata a tempo chiamata "tempo libero": lungi da me. Il tempo libero è un nonlavoro, che esiste in funzione del lavoro. Il tempo libero è tempo impiegato a ristabilirsi dagli effetti del lavoro, non è altro che il tentativo frenetico e frustrante di dimenticare il lavoro.
Molta gente torna dalle vacanze talmente spossata, che non vede l'ora di tornare al lavoro per potersi finalmente riposare. La principale differenza tra il lavoro e il tempo libero è che al lavoro in fin dei conti sei pagato per la tua alienazione e per il logoramento dei tuoi nervi.
Non sto proponendo astratti giochi di parole. Quando affermo che voglio abolire il lavoro, intendo dire esattamente quello che sto dicendo, ma ora voglio chiarire la questione definendone i termini in modo non emotivo. La mia definizione minima di lavoro è quella di lavoro forzato, cioè, produzione obbligatoria. Entrambi gli elementi sono essenziali. Il lavoro è produzione imposta attraverso strumenti economici e politici, cioè col metodo del bastone e della carota.
(La carota è la continuazione del bastone con altri mezzi). Ma non ogni produzione è lavoro. Il lavoro non è mai un'attività fine a se stessa, ma è sempre svolto in vista di una certa produzione o risultato che il lavoratore (o, più spesso, qualcun altro) trae da esso. Questo è ciò che il lavoro necessariamente rappresenta. Definirlo significa disprezzarlo. Ma il lavoro è di solito molto peggio di quanto esprima la sua definizione.
La dinamica del dominio intrinseca al lavoro lo spinge nel corso del tempo lungo un percorso evolutivo. Nelle società avanzate basate sul lavoro, e quindi in tutte le società industriali, sia capitaliste che "comuniste", il lavoro invariabilmente acquisisce ulteriori connotati che ne accentuano il carattere ripugnante.
Di solito — e questo è ancor più vero nei paesi "comunisti" che in quelli capitalisti, in quanto in essi lo Stato è praticamente l'unico datore di lavoro e ognuno è lavoratore dipendente — il lavoro è lavoro subordinato, vale a dire lavoro salariato, ciò che significa vendersi a rate. Così il 95% degli americani che lavorano, lavora per qualcun altro (o qualcos'altro). In Russia, a Cuba, in
Jugoslavia, o in qualsiasi altra situazione del genere a cui si voglia far riferimento, la percentuale corrispondente si avvicina al 100%. Solo le fortezze contadine sotto assedio costituite dai Paesi agricoli del Terzo Mondo — cioè Messico, India, Brasile, Turchia — difenderanno ancora per qualche tempo l'esistenza di forti concentrazioni di agricoltori che perpetuano la condizione tradizionale, comune alla maggior parte dei lavoratori negli ultimi millenni, cioè il pagamento di tasse (= riscatto) allo Stato o dell'affitto a proprietari terrieri parassitari, in cambio della semplice possibilità di vivere in pace. Ma ora anche un patto così brutale comincia ad apparire accettabile. Ora tutti i lavoratori dell'industria (e negli uffici) sono salariati e sottoposti ad un tipo di sorveglianza che ne assicura il servilismo.
Ma il lavoro moderno implica conseguenze ancora peggiori. La gente non lavora in senso proprio, ma svolge delle "mansioni". Ognuno svolge continuamente una sola mansione produttiva in forma coercitiva. Anche nel caso in cui il lavoro presenta un certo interesse intrinseco (carattere sempre meno presente in molte occupazioni) la monotonia derivante da tale coercizione all'esclusività elimina il suo potenziale ludico. Una "mansione" che, qualora venisse svolta per il piacere che ne deriva, impegnerebbe le energie di alcune persone per un lasso di tempo ragionevolmente limitato, si tramuta invece in un peso per coloro che la devono svolgere per 40 ore la settimana, senza poter dire nulla su come dovrebbe essere svolta, e questo per il profitto dei proprietari, i quali non contribuiscono affatto al progetto, e senza nessuna opportunità di dividere i compiti e di distribuire il lavoro fra quelli che effettivamente lo devono compiere.
Questa è la realtà del mondo del lavoro: un mondo di confusione burocratica, di molestie e discriminazioni sessuali, di capi ottusi che sfruttano e tiranneggiano i loro subordinati i quali — secondo ogni criterio tecnico razionale — sarebbero in realtà nella posizione di decidere da soli. Ma nel mondo reale il capitalismo subordina l'aumento razionale della produttività e del surplus alla propria esigenza di tenere sotto controllo l'organizzazione della produzione.
Il senso di degradazione che molti lavoratori sperimentano sul lavoro deriva da un insieme assortito di prevaricazioni, le quali possono essere tutte riassunte nel termine "disciplina".
Nell'analisi di Foucault tale fenomeno appare piuttosto complesso, mentre in realtà esso risulta essere abbastanza semplice. La disciplina consiste nell'insieme di quei sistemi di controllo totalitari che vengono applicati sul posto di lavoro — sorveglianza, lavoro ripetitivo, imposizione di ritmi di lavoro, quote di produzione, cartellini da timbrare all'entrata e all'uscita —.
La disciplina è ciò che la fabbrica, l'ufficio e il negozio condividono con la prigione, la scuola e il manicomio. Storicamente questo sistema risulta essere qualcosa di originale e terrificante. Un tale risultato va al di là delle possibilità di demoniaci dittatori del passato quali Nerone, Gengis Khan, o Ivan il Terribile.
Nonostante le loro peggiori intenzioni, essi non disponevano di macchine atte a un controllo dei loro sudditi così capillare quanto quello attuato dai despoti
moderni. La disciplina è un diabolico modo di controllo tipicamente moderno, è un corpo estraneo prima d'ora mai visto, e che deve essere espulso alla prima occasione.
Tale è la natura del "lavoro". Mentre il gioco è esattamente il suo opposto. Il gioco è sempre deliberato. Ciò che altrimenti sarebbe gioco si tramuta in lavoro quando diviene un'attività coercitiva. Questo è lampante. Bernie de Koven ha definito il gioco come "la sospensione della consequenzialità". Tale definizione è inaccettabile se implica che il gioco non sia un'attività conseguente. La questione non è se il gioco sia privo di conseguenze. Affermare ciò significa svilire il gioco. Il fatto è che le conseguenze, quando ci sono, hanno il carattere della gratuità. Il giocare e il donare sono attività fortemente correlate, sono aspetti comportamentali e transazionali relativi ad uno stesso impulso, l'istinto del gioco. Condividono lo stesso aristocratico disprezzo per i risultati. Il giocatore vuole ottenere qualcosa dal gioco; questo è il motivo che lo spinge a giocare. Ma la ricompensa essenziale sta nell'esperire quella stessa attività, qualunque essa sia.
Uno studioso del gioco altrimenti avvertito, quale è stato Johan Huizinga (Homo ludens), definisce il gioco come un'attività retta da regole. Per quanto io nutra rispetto per l'erudizione di Huizinga, respingo energicamente una tale limitazione. Esistono, è vero, numerosi e ottimi giochi (scacchi, baseball, monopoli, bridge) che seguono regole ben precise. Tuttavia l'attività ludica comprende molto di più che il gioco normato. La conversazione, il sesso, il ballo, i viaggi — queste attività non seguono regole ma sono sicuramente dei giochi, se mai ne esiste qualcuno —.
E delle regole ci si può prender gioco facilmente, come di qualsiasi altra cosa.

lunedì 26 novembre 2012

CSI NAPOLI!!!


Ci siamo recati sulla scena del delitto.
Il cadavere di una giove donna dall’apparente età di venticinque anni giaceva sul pavimento di una casa elegantemente arredata, situata in uno dei quartieri più in di Napoli.
Abbiamo esaminato porte e finestre in cerca di segni d’effrazione.
Abbiamo rilevato le impronte.
Abbiamo controllato gioielli e argenteria che erano al loro posto, escludendo così la rapina.
Abbiamo scattato un considerevole numero di fotografie al cadavere e molte altre foto sono state fatte agli schizzi di sangue alle pareti.
Il medico legale, dopo aver preso la temperatura del fegato, ci ha riferito che la donna poteva essere stata uccisa tra la mezzanotte e le due.
Abbiamo interrogato i vicini per sapere se avessero sentito qualcosa.
Abbiamo requisito il computer per analizzarne il contenuto.
Abbiamo requisito il cellulare per leggere i messaggi e verificare il traffico telefonico.
Abbiamo, altresì, requisito l’agenda in cerca di nomi numeri telefonici e appuntamenti.
Abbiamo convocato il fidanzato della vittima in centrale per interrogarlo e per verificare l’alibi.
Abbiamo convocato anche l’ex fidanzato per interrogarlo e per vedere se aveva un alibi.
L’anatomopatologo ha eseguito un’accurata autopsia e fatto numerose analisi tra cui quelle tossicologiche.
Abbiamo parlato con i genitori e gli amici più stretti della vittima per sapere di più sulla sua vita.
In laboratorio abbiamo analizzato al microscopio le sostanze trovate sotto le unghie della vittima.
Abbiamo poi analizzato le sostanze che si trovavano sotto le scarpe di un vicino della vittima.
Abbiamo prelevato campioni di dna all’ex fidanzato, a un vicino e a un garzone che consegna le pizze nel palazzo della vittima.
Abbiamo analizzato il proiettile trovato nel corpo della vittima.
Con due manichini che costano 5.000 euro l’uno abbiamo eseguito delle prove balistiche con l’ausilio del laser.
Abbiamo interrogato la proprietaria di un night club di Napoli dove la vittima si esibiva come spogliarellista di nascosto del fidanzato e dei genitori.
Abbiamo interrogato un noto malavitoso che frequenta abitualmente il locale.
Abbiamo eseguito indagini bancarie per verificare la situazione finanziaria della vittima.
Abbiamo interrogato la migliore amica della vittima in cerca di scheletri dell’armadio che potessero darci una pista.
Abbiamo visionato il contenuto delle registrazioni delle telecamere della zona dove abitava la vittima.

E sapete cosa abbiamo scoperto?



MANC’‘O CAZZ’

domenica 25 novembre 2012

Ho votato alle primarie


Stamattina sono andato a votare per le Primarie del centrosinistra.
Certo che centrosinistra fa cacare come cosa, avrei preferito votare per le Primarie della Sinistra e basta. Ma tant’è. Del resto siamo un popolo un po’ coglione, che se non vede il “centro” in politica poi ha paura degli estremismi. Ha paura della destra e della sinistra e allora vai coi preti coi casini e coi pompini olè.
Comunque sono andato a votare. Perché? Non lo so.
Di sicuro non sono andato perché la partigiana Carla con gli occhi rossi di pianto mi disse che “tanti ragazzi sono morti per questo straccio di democrazia, non dimenticatelo mai e andate sempre a votare o vengo a tiravi per i capelli la notte anche dopo che sono morta”.
No, non è per questo. Non sono neanche andato perché mi piace votare, perché per me il voto è sacro o perché è la mia liturgia invece di quella stronzata arteriosclerotica della messa.
Nessuno di questi motivi.
In realtà non lo so, anche perché di sicuro non voterò il PD o altri partiti di centrosinistra.
Ho votato Vendola, ma anche in questo caso mica so perché.
Cioè non avrei mai votato Bersani vecchio arnese politico, che vota le cacate di Monti e tutto mi pare tranne che una persona di sinistra. Renzi? Hahahhahahahahahahahahahaha ma mai nella vita! Ogni volta che parla pare sempre pronto a piazzarmi un set di pentole. Poi tu fai il sindaco? E finisci il mandato e non rompere i coglioni! Fammi vedere che sai fare lì e poi ti presenti.
Tabacci e Puppato no comment.
Come vedi, caro il mio gianduiotto cremoso che leggi, votare alle primarie è un’azione senza perché e dai moventi oscuri e sconosciuti. È un voto inconsapevole. È un voto che rappresenta il non so perché voto e non so perché voto proprio quello lì. È un atto pregno di minchia di cane.
È un po’ come la vita.


p.s. come la vedete mia madre che voleva dire a quelli del seggio che c'era un errore perché c'era scritto vendola e non ventola?

venerdì 23 novembre 2012

Differenza tra il mi piace di facebook e il mi piace della vita reale

Capita su facebook di mettere pure 20-30 mi piace al giorno. Su facebook il “mi piace” è la puttana del sito. Clicchi mi piace con estrema facilità.
Nella vita reale, invece, il “mi piace” è molto raro. Mi riferisco al “mi piace” vero, profondo, importante non certo il “mi piace la fottuta cioccolata bianca”.
Almeno per quanto mi riguarda il “mi piace” riferito a una donna è veramente un evento eccezionale. Spesso di una donna dico è carina; oppure è bella (spesso il “bella” lo uso in maniera direi asettica…sì, lo so, non è molto chiaro ma è così); oppure è bona; oppure ammazza che trojjone.
Ma “mi piace” non capita quasi mai. Davvero.
Cioè quando la ragazza mi piace, succede qualcosa di strano. È come se fosse composta da tanti piccoli pezzettini che mi piacciono che messi insieme formano la ragazza che mi piace.
E mi piacciono i suoi capelli. Mi piacciono più corti e mi piacciono ancora di più quando sono lunghi.
Mi piacciono i suoi occhi. Scuri, luminosi, profondi, allegri, tristi. Che sembrano sempre velare un sentimento nascosto.
Mi piacciono le sue labbra. Sottili. Sensuali. Che bacerei per giorni.
Mi piace il suo sorriso. A volte così aperto, a volte infantile, a volte come se provenisse da un altro mondo, a volte come se non riuscisse a nascondere un dolore o un impaccio.
Mi piacciono le sue mani. Quando le tiene in grembo e quando le agita mentre parla.
Mi piace la sua voce. Mi piace da impazzire e mi manca molto. Muoio senza sentire la sua voce; anche se per poco tempo. È bella la sua voce. Quando parla è come se costruisse un letto di rose su cui vorresti adagiarti per godere della sua melodia.
Mi piace come cammina.
Mi piacciono i suoi seni. Mi piace il suo culo. Mi piacciono le sue gambe. Mi piace il suo sesso. Ah che voglia di starle tra le gambe e leccare all’infinito.
Mi piace quando scherza, quando non mi capisce. Mi piace quando è violenta.
Mi piace quando esita. Mi piacciono le sue convinzioni e le sue insicurezze.
Mi piace quando mi parla dei suoi gusti.
Mi piace. Mi piace tutta, mi piace tutto.
Sono fottuto e niente ci posso fare.

giovedì 22 novembre 2012

Tranvata farmacia Mistero lavanderia Sicurezza salumeria


Stamattina, aggirandomi per il corso di una cittadina della provincia di Napoli, ho visto su una vetrina di una lavanderia il seguente cartello appiccicato: PIUMONI PAGAMENTO ANTICIPATO. Era l'unico cartello appeso e mi ha incuriosito. Mi sono affacciato per vedere il dentro del negozio e sotto l'immagine di Gesù Cristo (quella classica dove si vede un CRISTO! capelli castani, carnagione chiara, pizzetto e occhi azzurri) c'era lo stesso cartello con gli stessi caratteri cubitali: PIUMONI PAGAMENTO ANTICIPATO.
Perché questa specificazione ripetuta riguardante i piumoni? Che significa? Forse la gente li porta in tintoria e poi non li ritira più? Forse il negoziante non li sa lavare e se li fa pagare prima perché poi nella lavatrice si distruggono? Chi lo sa; il mistero è fitto.
Nel pomeriggio poi sono andato in farmacia perché il dentista mi aveva consigliato un dentifricio elettrico per pulire meglio i denti.
Entro, faccio vedere il modello del depliant e la farmacista gentilmente me lo porge.
"Quant'è?", chiedo innocentemente.
"170 euro", fa lei, "però con lo sconto fa 165".
ahahhahahahahhahahahahahahahah me stavo a collassà!!! Ho cominciato a ridere semi isterico e la commessa rideva appresso a me. Non la finivamo più. Alla fine ho ringraziato e ho preso una stecca di liquirizia in omaggio.
Dopo la farmacia sono andato in salumeria per prendere una confezione di caffè.
Bella la salumeria, con tutte quelle leccornie, gli odori che provengono dal bancone dei salumi e dei formaggi. Illuminata, le confezioni allegre e colorate dei biscotti, delle patatine, delle caramelle...si torna bambini in certi negozi.
Comunque sono andato alla cassa e insieme al caffè ho pagato pure un tronky che mi sono sgranocchiato sulla via del ritorno.
Poi bò? ho ricevuto un'inaspettata richiesta d'amicizia su facebook e ho accettato.
Perché ho accettato? Perchè mi faceva piacere.

martedì 20 novembre 2012

Alla frase "che Dio li protegga" mi sono girati i coglioni


La guerra (l’ennesima) tra Israele e Palestina scatena reazioni da tifosi di calcio.
Leggo ovunque espressioni come: Forza Israele! Arabi di merda!
Forza Palestina! Sionisti bastardi!
È, questa, una reazione che non mi piace e che trovo pure abbastanza stupida e volgare.
La situazione, a grandi linee, è chiara. Dalla fine del XIX secolo gli ebrei decisero che volevano indietro la Palestina e cominciarono a occuparla. Dopo la Seconda guerra mondiale non hanno fatto altro che incrementare questa occupazione.
La Palestina è un po’ come il Tibet; un piccolo popolo attaccato da uno grande e di cui nessuno se ne fotte un cazzo a livello internazionale.
Quando hai contro Cina e Usa che vuoi fare? Il famoso diritto internazionale non esiste più, o meglio esiste solo il diritto del più forte. Esistono l’ipocrisia, la prepotenza, la violenza, i soprusi e le porcate.
Io chiuderei le ambasciate israeliane per protesta, così da ridefinire il concetto e lo status dell’espressione “Stati canaglia”.
Comunque stamattina un tizio ha scritto: “Dei miei amici sono stati mandati come riservisti a Gaza; che Dio li protegga”.
Uhm.
Capisco la preoccupazione per gli amici, ma che c’entra Dio?
Cioè scusate non faceva prima Dio a non far scoppiare proprio la guerra?
Oppure: come potrebbe Dio proteggere dei riservisti israeliani quando non ha protetto dei bambini palestinesi che sono morti sotto le bombe?
Sarebbe un Dio veramente strano se dovesse proteggere dei militari e non dei bambini. Non credete?
Secondo il mio modesto parere, l’idea di Dio è semplicemente nociva. Lo dico agli ebrei fissati con Dio e agli arabi imparanoiati con Allah.
Non sarebbe meglio eliminare questa idea di Dio così malsana?
Non è questa idea tremendamente pericolosa nelle mani di gente falsa ipocrita e corrotta e nelle menti della gentarella che si fa manipolare e che con questa idea di Dio nel cervello non capirà mai le cose, non crescerà mai e mai migliorerà?
Pensiamoci.

domenica 18 novembre 2012

il mio spirito è diventato insofferente ovvero oggi ho preso due librerie ikea così i miei libri saranno più ordinati e io più felice


Perché vai all'Ikea?
Perché si risparmia. Io non tengo i soldi fuori la sacca; al contrario.
Non ti fa schifo andare all'Ikea?
Sì.
Hai letto che usavano prigionieri politici della Germania Est per fare i mobili?
Sì.
Hai letto quanto fanno schifo dal punto di vista del trattamento dei lavoratori?
Sì.
Sai che all'origine di ogni fortuna economica c'è un crimine?
Sì.
Che librerie hai preso?
Il nome non me lo ricordo, però sono semplici. Poi ho preso pure due mensole aggiuntive e due ferma libro per la mensola. In totale ho speso 100 euro, sono andato bene dai.
Faccio pure notare che il peso totale era di 80 kg e le ho portate su tutto da solo.
Questo non interessa.
Hai mangiato il salmone, vero?
L'ho mangiato.
Che banale che sei...non solo vai all'Ikea per risparmiare, non solo ci vai di domenica ma quando sei lì mangi pure il salmone.
Non ho mai detto di non essere banale, anzi. Lo confesso: sono banalissimo.
Che poi che c'entra lo "spirito insofferente"?
Ah, giusto!
Ho notato che sto odiando i discorsi confusi, i discorsi ibridi, i discorsi ipocriti e tutti quelli dove non si capisce un cazzo.
Odio i discorsi indefiniti. C'ho preso proprio una ripugnanza mondiale.
Quando parla un politico, per esempio, mi sale un odio indicibile.
Bè, ma è sano.
Sì è sano, ma mi girano veramente i coglioni.
Poi, dico io, uno o fa un discorso letterario o poetico o filosofico o psicoanalitico...io ascolto tutto e tutti solo i confusi mi fanno sclerare. Cioè parla pure, ma fatti capire porcoddeo! Annuso la truffa, la furbizia e non ce la faccio.
Cioè Céline fa Céline, Nietzsche fa Nietzsche, Leopardi fa Leopardi e cazzo! poi può piacere o no, essere d'accordo o no, ma almeno il discorso è chiaro, ha una direzione.
E che miseria!
Va bene, va bene ora rilassati che stai stanco e domani ti aspetta una luuuunga giornata.
Vero.
So che hai già deciso come consolarti...me lo dici?
No, fottiti. Ciao.

venerdì 16 novembre 2012

Mi sono sbattezzato


Ho deciso di sbattezzarmi.
Stamattina ho compilato il modulo che ho scaricato dal sito UAAR, ho fatto la fotocopia della carta d’identità e poi ho spedito il tutto tramite raccomandata A/R (5 euro li mortacci loro) al parroco della parrocchia dove i miei genitori mi battezzarono senza chiedermi niente ormai più di trent’anni fa.
Era una cosa da fare perché io non appartengo a nessuna chiesa, tantomeno quella cattolica, e non sono neanche religioso.
Alla fine la religione cos’è? A quale campo appartiene? Potremmo dire a quello spirituale, dico giusto? Ebbene, io il mio spirito me lo coltivo da me e non ho bisogno della religione. Ho la filosofia, la letteratura, la poesie, l’arte…la religione non mi interessa. Al massimo posso leggere vangeli e altre menate semplicemente per curiosità e per cultura.
Non li leggo certo perché credo o per avere delle risposte. Figuriamoci.
Dice eh vabbè, ma la morale l’etica l’educazione…bè, io tutte queste cose le ho imparate da mia madre e da mio nonno in campagna. Il mio spirito si è formato in campagna, tra gli animali, gli alberi, i fiori, la voliera del nonno dove lui mi parlava in maniera tanto genuina e dolce. Coi preti mai ci ho avuto a che fare.
Quando m’iscrissero al corso per la prima comunione mi ricordo solo di un tipo che ci faceva ridere da morire, delle parole della catechista bò? Parole a vuoto.
Poi io non mi sento rappresentato né dalla gerarchia ecclesiastica né dal papa che a volte spara delle cazzate immani. Quando dice delle cose giuste è perché dice banalità su cui possono essere d’accordo gli uomini dotati di ragione. Quindi è la ragione importante, non il Credo.
È importante che vi sbattezziate se non siete cattolici, se non andate a messa e se non credete perché altrimenti i clericali diranno sempre che hanno il gregge pieno di milioni di pecore e invece no, col cazzo, a me non mi dovete contare.
Poi, scusate, mettiamoci un attimo nell’ottica cattolica quando si crepa. Io non voglio né il paradiso, né l’inferno, né il purgatorio. Io voglio stare al castello del limbo dove ci sono Platone, Atistotele e tutti gli altri amici. Se poi, come credo, non fossi degno di entrare al maniero vuol dire che mi attenderò vicino al castello, sull’erba e lì starò per l’eternità sperando di poter entrare ogni tanto per fare due chiacchiere con i filosofi.

giovedì 15 novembre 2012

Indovinello


Ecco un indovinello proprio carino.
Dalle seguenti definizioni si deve indovinare di quale categoria di persone si sta parlando.
Pronti? E via!

- Tangheri addottrinati che inquinano la tazza della mente.
- Melliflui chiacchieroni che rimpiangono tempi che non hanno mai vissuto.
- Che amano le ammuffite librerie indipendenti e i librai invadenti.
- Che se gli chiedi: Qual è la cosa che apprezzi di più in una donna? rispondono: L’intelligenza...
- ...e per questo hanno grossi problemi a rimorchiare
- ...e preferiscono stare a casa a rileggere Infinite Jest.

mercoledì 14 novembre 2012

Oggi è sciopero

Bene, bene, oggi c'è lo sciopero dei dilettanti.
Voi ominidi scioperate per 4 ore, qualcuno più coraggioso addirittura per 8...io sono in sciopero da ben 289089 ore; ergo, tutti voi dello sciopero istituzionalizzato e cretino non potete farmi altro che una colossale pippa.
Sciopero è una parola nobile, ma voi tutto fate tranne che uno sciopero.
Ormai lo sciopero è diventato una buffonata, una carnevalata, una GIORNATA, addirittura una giornata europea! ma andate a cacare voi e le vostre giornate da mentecatti. Come ieri...la giornata mondiale della gentilezza!!! ahahhahahahahahahha ma andate a dar via il culo bucaioli!
Lo sciopero odierno serve a divertire i brufolosi cheguevariani liceali, alla presenza assenza ci siamo ma non serviamo dei sindacati, a far sfogare le rabbie represse dei poliziotti, ecc. ma in realtà non serve a un cazzo.
Primo perché non vi partecipano tutti, ma solo i ragazzi per non andare a scuola e quelli con le pezze al culo.
Ma quello che mi irrita davvero è il fattore temporale. Porca troia, uno sciopero deve durare giorni, settimane, mettere sul banco questioni importanti e non mollare finché non si hanno riscontri e risultati veri.
Invece questi scioperano qualche oretta...ahahhahahahaha ma a che serve?
Cioè che cazzo concludete con questo sciopero mignon? Fate una giornatina diversa, una scampagnata? vi piace cantare qualche slogan prima di tornare alla merda?
Non so, ma mi sembra tutto così mediocre.
Poi, per cosa scioperate? Per avere il lavoro? per i soldi? ma così non si va da nessuna parte. Un sistema fondato su lavoro e soldi non potrà essere altro che una chiavica, quindi è inutile.
O scioperate per abolire soldi e lavoro oppure levatevi dal cazzo.

martedì 13 novembre 2012

Razzi


Nel volume Il mio cuore messo a nudo sono raccolti alcuni scritti postumi di Baudelaire. La prima parte è intitolata Razzi e stamattina l’ho riletta per l’ennesima volta. In questi giorni mi sento azzurro come una poesia russa del Novecento e infatti sto leggendo Blok che piace anche all’Adorabile Etrusca, ma di lui parlerò in un altro post perché voglio ancora degustarmelo per bene.
I primi pensieri che mi hanno colpito sono stati quelli sull’amore:
L’amore è il gusto della prostituzione. Non c’è anzi piacere nobile che non possa essere ricollegato alla Prostituzione.
L’amore può derivare da un sentimento generoso: il gusto della prostituzione; ma è corrotto ben presto dal gusto della proprietà.
Subito dopo segue una coerente (e meravigliosa) definizione dell’arte:
Che cos’è l’arte? Prostituzione.
Poi Charles ha scritto una cosa proprio per me, nel senso che è un pensiero che io sento completamente affine:
L’entusiasmo applicato ad altro che alle astrazioni è sintomo di debolezza e malattia.
Una breve nota sul “naturale linguaggio artistico” umano:
Cielo tragico. Epiteto d’ordine astratto applicato a un essere materiale.
Quest’altro pensiero dovrei stamparlo e metterlo alla parete sopra il mio giaciglio:
La vita ha un solo vero fascino; il fascino del Gioco. Ma se vincere o perdere ci è indifferente?
Ecco. Io sono completamente indifferente a questo gioco. Che me ne frega a me di concorrere con i miserabili per le loro stronzate? Non sono uno snob, ma sono nato così.
Andiamo un attimo al porto:
Quelle belle e grandi navi, impercettibilmente cullate (dondolanti) sulle acque tranquille, quelle navi robuste, dall’aria sfaccendata e nostalgica, non ci dicono forse in una lingua muta: Quando partiamo per la felicità?
Una stoccata a Victor Hugo:
Hugo-Sacerdozio ha sempre la fronte china; - troppo china per poter vedere qualcosa di diverso dal proprio ombelico.
E concludiamo con un pensiero sull’uomo e il Progresso, un argomento che spesso mi prende e mi porta via. È un pensiero bicorne. Da una parte penso che l’uomo non sia cambiato dai tempi delle caverne e che mai cambierà. Dall’altra parte mi è rimasto impresso un passo del Libro delle previsioni che Saramago appose a Le intermittenze della morte: Sapremo sempre meno che cos’è un essere umano.
Lascio la parola a Charles e ritorno da Aleksandr, Heinrich e altri.
Che c’è di più assurdo del Progresso, dato che l’uomo, come il fatto quotidiano dimostra, è sempre simile e uguale all’uomo, ossia sempre allo stato selvaggio. Che cosa sono i pericoli della foresta e della prateria in confronto agli urti e ai conflitti quotidiani della civiltà? Che l’uomo catturi la propria vittima sul Boulevard, o che trafigga la preda in foreste sconosciute, non è forse l’uomo eterno, cioè il più perfetto animale da preda?

lunedì 12 novembre 2012

Metto un foglio alla parete


Ho preso degli enormi fogli di carta da pacco di un colore marroncino chiaro. Li ho tagliati in due parti e sono ancora enormi. A cosa mi servono? A tracciare dei segni a mano libera, a entrare in armonia con me stesso, a ripercorrere gli atteggiamenti che in età prescolare costituivano il mio rapporto con il disegno: un disegno che si configurava come privo di qualsiasi contenuto estetico o finalità e, allo stesso tempo, teso verso l’atto istintivo del tracciare segni come espressione emotiva.
Quello che mi interessa è attuare una pura forza comportamentale attraverso la quale esprimere – per mezzo del segno tracciato – uno sfogo, un bisogno, una conquista… intendo riappropriarmi di quell’atteggiamento libero e disinibito, far rivivere la semplice possibilità espressiva di tracciati fatti senza pensieri.
Ovviamente il foglio si può piazzare dove si vuole: sul cavalletto, per terra, su un tavolo…io l’ho attaccato alla parete con dello scotch di carta e lì traccio dei segni armonici, disarmonici, forti, violenti, leggeri e impalpabili con un unico obiettivo: divertimento e riconciliazione col disegno.
Bene, vado a tracciare liberamente e vi lascio con questo simpatuicissimo aneddoto.
Uno studioso del primo Novecento che si occupava dei disegni di bambini in età prescolare così raccontava.
Un padre, rientrato a casa, trova la figlioletta intenta a disegnare sul tavolo di cucina. Compiaciuto, si avvicina all’opera così composta: alla sinistra del foglio, ordinatamente rappresentata, la figura di un soldato ornato di cappello, mantello e spada; sulla destra una bellissima figura femminile dai capelli lunghi ricadenti su un ricco vestito che le arriva ai piedi.
Il padre chiede alla figlia chi sia mai quella donna così bella. “La mamma!” risponde sorridente la figlia.
“E il soldato?” le chiede il padre.
“L’uomo che viene quando tu non ci sei!”.

domenica 11 novembre 2012

I consigli di Travaglio a Grillo che condivido in pieno

Giacché ho pubblicato il dodecalogo di Beppe Grillo che ci aiutava a chiarire alcuni punti del Movimento 5 Stelle pensiero, stasera posto i dieci consigli (non richiesti per la verità) di Marco Travaglio a Beppe Grillo.

Beppe, sorridi di più, cazzo. Lo so che in questo momento non c’è molto da ridere sotto nessun punto di vista, ma i musi lunghi e i denti digrignanti lasciali ai politici, che del resto ne hanno ben donde.
Beppe, sei troppo aggressivo. Un’esagerata aggressività mette ansia e non è per niente rassicurante. Nei casi di Giovanni Favia e Federica Salsi, un abbraccio pubblico sarebbe stato la scelta migliore; magari con una spiegazione delle critiche ai loro comportamenti.
Capitolo insulti. Molti di quelli che lanci alla casta e ai giornalisti leccapiedi sono sacrosanti. Ma ora la casta è morente e anche i giornalai prezzolati si sentono poco bene: il dispetto più feroce, d’ora in poi, è d’ignorarli.
Per quanto riguarda i rapporti con la stampa non fare come i politicanti che attaccano i giornalisti che li criticano. Molto meglio sarebbe confutare le critiche nel merito.
La tv fa schifo, è in mano a quelle chiaviche dei partiti e i talk show fanno cacare, ma vietare sempre e comunque a candidati ed eletti in tv è un errore. La libera stampa, quando è libera e rappresenta i cittadini, ha diritto di fare domande e obiezioni, e il candidato e l’eletto hanno il dovere di rispondere.
Il web è importante e tu lo stai utilizzando la meglio, ma molti italiani, per i più svariati motivi, internet o non ce l’hanno o non lo frequentano. Leggono i giornali, ascoltano la radio, soprattutto guardano la tv. Chi fa politica non può ignorarli, anche perché sono il grosso degli ASTENUTI.
Quelli che dicono che il M5S non ha un programma dicono una cazzata, il programma c’è eccome. È certamente un programma ancora in fieri in cui mancano spesso le spiegazioni sul “come” e sul “con quali soldi”. Mancano voci come la lotta alla criminalità economica, prima causa della crescita zero in Italia; lotta alla criminalità organizzata, seconda causa; riforma della giustizia per farla funzionare di più e meglio. Tanti magistrati e giuristi potrebbero dare consigli interessanti per rimpolpare il programma.
Per quanto riguarda il “referendum sull’euro” siamo un po’ nella nebbia. Come si vive con l’euro lo sappiamo, come si vivrebbe tornando alla lira (che poi figurati se sarà mai possibile) non lo sa nessuno. I salti nel buio sono controproducenti, perché spaventano gli elettori. Urge spiegazione, possibilmente convincente.
Per quanto riguarda i candidati del M5S è bella tutta questa gioventù piena di idee e di entusiasmo, ma mentre in Parlamento tutto ciò è un vantaggio al governo è un handicap. Lì ci vuole gente esperta e competente: indicare al più presto i nomi di chi, in caso di vittoria elettorale, sarebbero il premier e i ministri.
Ultimo consiglio. Di’ a Gianroberto Casaleggio de tajarsi i capelli, così nun se po’ guardà!

(madonna santissima...)

venerdì 9 novembre 2012

...e come facciamo? come fecero gli antichi...e come fecero gli antichi? ma che ne so io...


Dopo Cotto e mangiato della Parodi sogno una trasmissione condotta da Christian De Sica Sazio e cacato.
A volte mi sembra d’avere il mal d’Africa anche se non sono mai stato in Africa.
A che destino ignoto
si soffre? Va dispersa
la lacrima che versa
l’Umanità nel vuoto?
La distinzione maschile-femminile negli scacchi non ha senso. Non è mica la boxe.
Vorrei fare una domanda alla Lega Nord: ma non vi vergognate di avere tra voi uno come Borghezio? Poi una domanda più importante agli elettori che lo votano: ma non vi vergognate manco un po’ a dare il voto a gente simile?
Nel Pd non sono d’accordo manco sulla passera.
Mentre stavo in auto Virgin Radio ha passato proprio una bella canzone: Someone else's bed delle Hole. Andate e ascoltate.
Ho cominciato l’ennesima collana di filosofia con Repubblica. Due euro e 50 si può fare. Il primo numero è dedicato all’araba fenice per eccellenza e cioè alla FELICITÀ.
Questa l’ho pensata nel traffico di Napoli: ...e mentre l'Occidente inseguiva onori e gloria, l'Oriente abbandonava l'Ego e ogni genere di boria...
Mia madre ha comprato l’ultimo numero di Micromega. Magari se trovo qualche articolo interessante ne parlerò qui.
Un desiderio? Sto
supino nel trifoglio
e vedo un quadrifoglio
che non raccoglierò.

giovedì 8 novembre 2012

Il dodecalogo di Beppe Grillo


Devo fare una piccola premessa.
Ho pubblicato finora le prime tre parti del programma politico del Movimento 5 Stelle e lo completerò prossimamente, ma devo correggere il tag.
I post dedicati al Movimento di Grillo avranno il tag Movimento 5 Stelle, mentre le vicende che riguardano Monti, PDL, PD e altra merda resteranno con il tag "politica".
Voglio distinguere questo sistema di cialtroni, indegni e ladri dalle questioni politiche che pone il M5S.
M'interesso al Movimento 5 Stelle perché è la mia scelta per le prossime elezioni politiche. Non me ne frega un cazzo del PD, di Bersani e di tutte le minchiate del centro sinistra. Andate a cacare.
Ho avuto un piccolo dialogo con una donna che si dichiarava "di sinistra" e che voterà PD nonostante (parole sue) gli ultimi vent'anni catastrofici e l'indecenza del PD.
Buon per lei. Io ritengo che la politica sia un bisogno da miserabili e un'illusione e io voglio semplicemente illudermi meglio che dare il mio voto a Martin Luther Pompa delle Bettole.
Oggi posto il dodecalogo di Grillo e pubblicherò tutto quello che ritengo vero e utile del Movimento perché a me il circo che han messo su per denigrarlo mi fa letteralmente girare le palle. Ovviamente, il mio non è un appoggio incondizionato, cieco o supino. Sarò sempre vigile e contesterò quello che non mi trova d’accordo.
Una postilla. Votare PD è aderire alla teoria dello "stesso cesso". Cioè i politici possono fare schifo quanto vogliono tanto gli stronzi che votano non hanno scelta. Bè, io la scelta me la prendo.

1. Nessuna alleanza.
Antonio di Pietro ha la mia stima, ma il M5S non si alleerà né con l’Idv, né con nessun altro. Il M5S vuole sostituire il Sistema dei partiti con la democrazia diretta. In sostanza vuole la fine dei partiti basati sulla delega in bianco.
2. La poltrona sarà una sola.
Chi sta svolgendo un qualunque incarico elettivo non può dimettersi per concorrere ad altre cariche elettive (es. chi è consigliere non può candidarsi a deputato, chi è senatore non può candidarsi a sindaco).
3. Tetto di 5 mila euro.
Gli eletti del M5S tratterranno per sé una parte degli emolumenti, oggi fissata in un massimo di 5.000 euro lordi, e restituiranno la rimanenza allo Stato.
4. Moneta unica e referendum.
La decisione di rimanere nell’euro spetta ai cittadini italiani attraverso un referendum, questa è la mia posizione. Io ritengo che l’Italia non possa permettersi l’euro, ma devono essere gli italiani a deciderlo e non un gruppo di oligarchi o Beppe Grillo.
5. Due mandati.
Il M5S non candida chi ha svolto due mandati anche se interrotti.
6. Appoggio sulle istanze.
Il M5S supporta e appoggia le istanze dei movimenti con obiettivi comuni, come è avvenuto per il no al nucleare, l’acqua pubblica, il No Tav e il No Gronda, eccetera.
7. No ai leaderini.
Nel M5S non ci saranno primarie (non si votano leader o leaderini) per le elezioni politiche, ma la scelta di portavoce per la Camera e per il Senato. Il loro compito sarà l’attuazione del Programma elettorale in stretta collaborazione attraverso la Rete con gli iscritti.
8. Programma in fieri.
Il Programma del M5S esiste (chi dice il contrario mente) ed è visibile sul blog. Prima delle elezioni politiche sarà integrato e migliorato dagli iscritti con una piattaforma on line.
9. Rimettere il mandato.
Il consigliere, il sindaco o il parlamentare non ha l’obbligo di rimettere il mandato periodicamente (ad esempio ogni 6 mesi). Nel caso questo avvenisse deve essere preceduto da un’informazione pubblica e dettagliata del suo operato sul portale con votazione estesa a tutti gli iscritti del Comune e della Regione di riferimento, o dell’intero corpo elettorale del Parlamento.
10. No ai rimborsi elettorali.
Il M5S non ha incassato alcun rimborso elettorale per le regionali e non lo incasserà per le prossime politiche.
11. Interviste sì, talk show no.
Non sono “vietate” interviste di eletti del M5S trasmesse in tv per spiegare le attività di cui sono direttamente responsabili. È fortemente sconsigliata (in futuro sarà vietata) la partecipazione ai talk show condotti abitualmente da giornalisti graditi o nominati dai partiti, come nelle reti Rai, Mediaset e La7.
12. Al voto.
Il M5S vota le proposte che aderiscono al Programma anche se dei partiti.

mercoledì 7 novembre 2012

Cosa in sé


L’espressione “cosa in sé” la incontriamo quando studiamo Kant. Vediamo un po’ cosa significa e tracciamo la storia di questo concetto.
La cosa in sé è l’oggetto della conoscenza considerato nella sua realtà indipendente dai contenuti percettivi e dalla forma giudicativa del soggetto.
La distinzione tra la realtà autonoma delle cose e il loro manifestarsi all’uomo è già presente nello scetticismo greco. Essa viene ripresa dal pensiero moderno a partire da Cartesio (Principia philosophia, II, 3: “Le percezioni dei sensi non insegnano che cosa ci sia veramente nelle cose, ma che cosa giovi o nuoccia al corpo umano”) e poi ereditata dall’Illuminismo, dove la cosa in sé designa il piano della realtà distinto da quello dell’apparenza (M. de Maupertius).
La massima estensione dell’uso del concetto si ha in Kant. Nel suo pensiero la cosa in sé designa il limite della conoscenza umana che, fondata sull’intuizione sensibile, non potrà mai cogliere la realtà indipendente di ciò che viene esperito. Di qui la fondamentale distinzione tra fenomeno (l’oggetto in quanto cade sotto le forme conoscitive del soggetto) e cosa in sé o noumeno (l’oggetto in quanto viene pensato nella sua autonoma esistenza).
La cosa in sé assolve pertanto il ruolo di “concetto limite” (Grenzbegriff) per circoscrivere e tenere a freno le pretese conoscitive della scienza e della metafisica (Analitica dei principi, III).
La portata negativa e critica del concetto viene però contestata e ridotta nella riflessione postkantiana a partire da Reinhold e in seguito con gli sviluppi del pensiero idealistico. Accentuando il primato della ragione pratica (che già secondo Kant colloca l’uomo nel dominio del soprasensibile), Fichte riduce la cosa in sé a un momento dell’attività dell’Io che negandosi e poi superando la sua stessa negazione rende possibile un processo di autoliberazione e di autopotenziamento infiniti.
La più radicale critica del concetto di cosa in sé è opera di Hegel, che definisce il noumeno il caput mortuum della filosofia kantiana. La cosa in sé non è infatti niente di reale o di soprasensibile, ma è il mero risultato di un processo astrattivo intellettualistico: la “vuota cosa” come residuo della negazione compiuta dall’intelletto di tutte le determinazioni reali (Enciclopedia, par. 45-46).
Anche Nietzsche, con il suo solito stile, criticò più volte il concetto di cosa in sé bollandolo come “degno di una risata omerica”.

martedì 6 novembre 2012

I miti di Platone. 8 punti cardinali

In primo luogo dunque, a quanto sembra, noi dovremo sovrintendere ai produttori di miti, e accettare quello che facessero di buono, rifiutare invece quello che non lo è. Convinceremo sia le balie sia le madri a raccontare ai bambini i miti ammessi, mettendo più impegno nel formare le loro anime con i miti che i corpi con le mani.
(Platone, Repubblica, II 377 C)
Sto leggendo l’interessantissimo libro di Franco Ferrari sui miti di Platone e ho deciso di condividere con gli amici otto punti sui miti platonici che ritengo utili per affrontare i dialoghi di Platone e da tenere come base per ulteriori approfondimenti.

1. I miti platonici sono tendenzialmente monologici. A differenza delle sezioni “normali”, che si articolano in forma dialogica, le parti mitiche sono esposte da un unico personaggio, senza che il suo racconto venga spezzato dagli interventi degli interlocutori (un’eccezione è costituita dal grande mito dei cicli cosmici del Politico, dove il racconto dello Straniero è qua e là interrotto da osservazioni di Socrate).
2. Solitamente i miti vengono raccontati da un personaggio anziano a un pubblico di giovani. Si tratta di uno stratagemma certamente funzionale ad accrescere l’autorevolezza del contenuto del racconto. Il mito di Atlantide e dell’Atene preistorica, collocato all’inizio del Timeo, viene raccontato ai presenti da Crizia (che potrebbe non essere il più anziano dei suoi interlocutori), ma rinvia, attraverso una lunga e complessa tradizione, al racconto fatto a Solone da un vecchio sacerdote egiziano. Il mito viene raccontato da un egiziano a un greco e, secondo il sacerdote, i Greci rimangono dei fanciulli rispetto agli Egiziani: dunque la direzione del racconto è quella che va da un popolo anziano a uno giovane, e rappresenta in modo emblematico il movimento del mito.
3. I miti si richiamano a (e dunque si fondano su) una fonte orale, tanto nel caso in cui tale fonte risulti reale, quanto in quello in cui essa sia fittizia. A questo proposito si può ricordare il richiamo a ciò che uomini e donne esperti dicono a proposito dell’immortalità dell’anima nel Menone, oppure la tradizione orale dei cicli cosmici nel Politico, ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Il mito sembra collocarsi all’interno della dimensione del dire e dell’ascoltare, che per Platone possiedono uno statuto particolare, superiore a quello della scrittura, come si evince dalla sezione conclusiva del Fedro.
4. I miti trattano di oggetti o eventi sottratti alla verifica, sia perché situati in un tempo remotissimo, sia perché collocati in una dimensione spaziale (o addirittura extra-spaziale) inaccessibile alla nostra esperienza. I racconti relativi alle origini di una civiltà o di una tecnica (la politica o la scrittura) si situano in un passato lontanissimo e narrano di entità divine, inaccessibili all’esperienza quotidiana. In generale, sembra di poter dire che per Platone l’ambito divino nel suo complesso è uno di quelli in cui il discorso mitico possiede una sorta di diritto di prelazione (sebbene non di esclusività).
Anche la visione del mondo delle idee viene presentata ricorrendo a un mito – quello del viaggio metacosmico dell’auriga alato del Fedro – sebbene delle idee si possa parlare anche per mezzo dell’argomentazione razionale.
5. I miti platonici ricavano la loro autorità non dall’esperienza diretta di colui che li espone, bensì da una tradizione remota e consolidata, oppure dall’affidabilità di un personaggio sottratto alle dinamiche confutatorie del dialogo (come Diotima nel Simposio). Il mito relativo all’origine della tecnica politica raccontato da Protagora nel dialogo omonimo non presenta questa caratteristica e infatti contiene tesi filosofiche che Platone non condivide; analogo discorso si potrebbe fare per il mito degli uomini dimezzati narrato da Aristofane nel Simposio. In generale si tratta di racconti che non ricavano la loro autorità dalla tradizione o da figure straordinarie, ma pretendono di farla dipendere dal personaggio dialogico che li espone.
6. La funzione del mito è essenzialmente quella di persuadere l’anima e di orientarla verso scelte eticamente o politicamente “buone”: in questo senso la sua è una funzione psicagogica. In particolare il mito si rivolge alle istanze irrazionali dell’anima allo scopo di indurle ad accettare, attraverso forme di coinvolgimento emozionale, il comando della ragione. Dal momento che queste parti non sono in grado di riconoscere direttamente la legittimità di questo comando, il mito si serve di tecniche emozionali, come ad esempio l’incantamento (epode), che possano operare quel processo di coinvolgimento e ri-orientamento al bene fondamentale alla vita del singolo e della comunità.
7. I miti non sono strutturati in modo argomentativo e dialettico (cioè nella forma domanda-risposta), ma espongono descrizioni o racconti di fatti o oggetti. Naturalmente questo motivo esprime direttamente la differenza tra le procedure dialettiche della filosofia e quelle fonologiche del racconto mitico (ma anche qui qualche eccezione non manca). In tale contesto si situa anche l’uso all’interno del mito di immagini o similitudini, le quali riescono a raffigurare in forma sinottica e comprensiva nessi teorici o argomentazioni difficili da cogliere nella loro totalità.
8. I miti sono solitamente collocati all’inizio o alla fine di un’argomentazione condotta con metodi dialettici. I casi più noti sono certamente costituiti dai tre grandi miti dell’aldilà che chiudono il Gorgia, il Fedone e la Repubblica. In un dialogo come il Menone, invece, il mito relativo alla reminiscenza si trova al centro del dialogo, ma la sua posizione è di passaggio, in quanto esso conclude la prima parte (quella in cui emerge l’incapacità di Menone di fornire una definizione della virtù) e inaugura la seconda (in cui Socrate presenta il procedimento anamnestico come soluzione al problema della conoscenza). Nel Politico il mito dei cicli cosmici ha lo scopo di risolvere le difficoltà emerse nella discussione che lo ha preceduto e in particolare di dimostrare l’errore che stava alla base della definizione del politico come “pastore di uomini”.

domenica 4 novembre 2012

Oggi non ho imparato niente


Che strana giornata. Mancano 5 ore alla fine di questa domenica e non ho imparato niente di nuovo, fatto niente di niente, non è successo niente...cioè è stata una domenica in cui ho nutrito il corpo e me ne sono sbattuto il cazzo dal punto di vista mentale e spirituale.
Il nulla oggi mi ha posseduto e io l'ho seguito docilmente, senza opporre resistenza...ho detto semplicemente Nulla nullificami, Niente annientami.
Mi rendo conto che io sono un fedele servitore di mr. Nothing e mr. Anything.
In fondo pure dal punto di vista del corpo non sono granchè. Non faccio sport, non curo per niente il look. E per quanto riguarda il cibo ho fatto la solita e semplicissima colazione e per pranzo pasta con la salsa. Semplice. Per secondo cotoletta, contorno due melenzane sottolio e due carciofi grigliati. Cioè nessuna nouvelle cousine. Per dolce mio cognato ha portato i cannoli siciliani che facevano letteralmente cacare. Cioè erano dei non-cannoli. Pure il vino era senza infamia e senza lode.
Credo che sia l'accumularsi di queste giornate senza senso e senza gioie intelletuali ad avermi convinto che mi ci vuole una regola di vita spirituale.
Devo diventare un chierico della conoscenza. Adesso vado a stilare il programma con orari e compiti da portare a termine.
Assolutamente.
Poi magari non concludo un cazzo lo stesso, sfanculando il suddetto programma dopo due giorni, ma vabbè...sfanculare un programma fatto da me stesso è comunque una soddisfazione.

venerdì 2 novembre 2012

Come diventare NON creativi


La creatività è il mito dei nostri tempi.
Essere creativi è diventato un ambito traguardo e finanche una figura professionale.
A questo proposito segnalo una piccola curiosità: alla domanda che mestiere fai?, la risposta “faccio il creativo” non fa ridere nessuno mentre se rispondi “faccio il filosofo” o “faccio il pensatore” scatta la risatina e lo sghignazzo.
Al giorno d’oggi tutti vogliono essere creativi, esistono scuole, corsi e si stampano tanti libri che pretendono di insegnare la creatività.
Come sempre in questi casi, a me viene l’orticaria. Siccome sono di costituzione inattuale e Ingestibile, visto che tutti vogliono diventare creativi, io, al contrario, voglio diventare un non-creativo.
Grazie al filosofo Maurizio Ferraris ho potuto stendere questi appunti che vanno a costituire questo decalogo anti creatività che condivido con chi vorrà.
1. Non pensate a un elefante rosa.
Ovviamente, ci avete pensato. Chiedere di diventare creativi non è diverso, e proporre un metodo per diventare creativi non sembra diverso dall’ordine di disobbedire o dall’ingiunzione di essere naturali.
E proprio come quando ti dicono di essere naturale incominciano le palpitazioni e i sorrisi tirati (ti verrebbe voglia di dire che no, che tu sei artificiale), così alla ingiunzione del creare vien voglia di opporre una resistenza passiva: io no, non creo, neanche sotto tortura.
2. Andate a scuole repressive.
Spesso sentiamo di gente che se la prende con la scuola, dicendo che frustra la creatività. Un discorso vecchio che non spiega come mai tanti creatori siano sorti in passato, cioè in epoche di scuole terribilmente repressive. Sembrerà strano, ma la repressione aguzza l’ingegno, mentre l’esortazione a essere creativi è paralizzante.
3. Non esagerate con le idee.
Passiamo ora a una frase di Hegel e a un aneddoto su Einstein.
Il filosofo tedesco, con il suo inconfondibile stile, scrisse una cosa molto vera: Le idee sono a buon mercato come le mele.
Una volta un tale incontrò Einstein e gli disse: “Io mi sveglio alla mattina alle cinque e annoto le idee”. E Einstein: “Io no. Sa, io di idee ne ho avute al massimo una o due in tutta la mia vita”.
4. Copiate, non create.
Il segreto della creatività è un segreto di Pulcinella. Per diventare creativi bisogna fare il contrario di quello che consigliava quel tale della scuola della creatività; bisogna copiare, copiare e ancora copiare. Quando tutto quello che abbiamo copiato ci uscirà dagli occhi, quando ogni verso, ogni nota, ogni disegno ci sembrerà una citazione, ecco che saremo dei creatori o (almeno) non saremo dei ripetitori. Questo non vale solo nell’arte, ma nella vita, dove il più delle volte i principianti ripetono schemi già visti, proprio come gli autori inesperti adoperano frasi fatte. Il punto è molto semplice, e l’ha enunciato una volta Umberto Eco: si sbaglia ad associare il genio alla sregolatezza; il genio non ha meno regole degli altri, ne ha molte di più.
5. Inventariate, non inventate.
Per copiare, l’inventario e il catalogo sono una grande risorsa, lo sapevano già i latini. “Inventio”, in latino, vuol dire due cose: l’idea che sembra sorgere dal nulla, l’invenzione dell’inventore, e quella che viene trovata in un repertorio (“inventio” era anche inventariare, trovare i luoghi comuni buoni per fabbricare discorsi retoricamente persuasivi). Ora, non c’è niente che aiuti a inventare tanto quanto lo è l’inventariare. E se proprio non si riesce a inventare, si ha almeno la consapevolezza che certe pretese invenzioni sono vecchie come il cucco.
6. Classificate, non costruite.
Questo principio discende direttamente dal precedente. Che fastidio, dopotutto, i creatori, e che piacere, invece, i classificatori, che mettono ordine nella massa di quello che c’è prendendo a modello il motto del Monsieur Teste di Paul Valéry: Transit classificando.
7. Esemplificate, non semplificate.
Diceva Leibniz: chi abbia visto attentamente più figure di piante e di animali, di fortezze o di case, letti più romanzi e racconti ingegnosi, ha più conoscenze di un altro, anche se, in tutto quello che gli è stato dipinto o raccontato, non ci fosse una sola cosa vera. Gli esempi sono una grande e lussureggiante risorsa, e sono il bello della cultura, che dunque non paralizza la creatività, ma la rende possibile.
8. Cercate oggetti e non soggetti.
Diceva Amleto: “Ci sono più cose fra la terra e il cielo che in tutte le nostre filosofie”. E Rilke: “Loda all’Angelo il mondo, mostragli quello che è semplice, quel che, plasmato di padre in figlio, vive, cosa nostra, alla mano e sotto gli occhi nostri. Digli le cose. Resterà più stupito”. Gli oggetti che popolano la nostra vita sono un universo di esempi concreti, e in più non praticano (in genere) le mistificazioni e auto mistificazioni dei soggetti. A guardarli bene, c’è da trarne una quantità di idee e di soluzioni, o, mal che vada, si possono riempire pagine e pagine come fa Balzac quando non sa come andare avanti con i suoi romanzi.
9. Mandate al creatore i creativi.
Non in senso maligno, ma così, alla buona, che se li goda Lui, noi ci teniamo i banali e i ripetitivi.
10. Fate un monumento a Bouvard e Pécuchet.
Con l’inflazione di creativi, il non-creativo è una bestia rara, da cercare con il lanternino, e magari da ammirare e da riverire. Facciamo, dunque, un monumento a Bouvard e Pécuchet, i due più grandi eroi di Flaubert, i due copisti per eccellenza, e leggiamo questo romanzo davvero creativamente anti-creativo.

giovedì 1 novembre 2012

E poi arriva quella voglia di...


E poi arriva quella voglia di defecare…arriva da dentro, dallo stomaco, dal culo, da quel posto che non vedi quasi mai, ma sai bene che c’è…una necessità inesorabile, qualcosa che vuole uscire. A quel punto lo sai: o cachi o muori. Una seduta sul cesso. Una serie di piccoli sforzi.
Una liberazione. Giusto per sgravarsi di quel fastidioso peso. Perché per ricominciare a vivere bisogna cacare, e per cacare bisogna stare tranquilli. E così, proprio quando credevi di rimanere intoppato per sempre, quando disperavi di avere funzioni corporali normali, ti liberi dello stronzo…e capisci che quella non è una semplice cacata, ma un primo passo…l’inizio di una nuova vita, la nascita di un nuovo te stesso, al contempo uguale e diverso da quello di prima…forse più forte, forse più sereno, sicuramente più leggero.