mercoledì 29 febbraio 2012

La maestà dello scheletro


Andare al Museo di Storia Naturale con Cioran non significa fare i turisti giapponesi del cacchio, ma vivere una magnifica esperienza filosofica.
Cioran rimase colpito da quelle orbite, più insistenti a guardarvi che se fossero state occhi, quella fiera di crani, quel ghigno automatico a tutti i livelli della zoologia.
In quel luogo dove vengono servite dosi massicce di passato, il possibile sembra inconcepibile, o bislacco. Si ha l’impressione che la carne si sia dileguata fin dal suo primo apparire, anzi che non sia mai esistita, che non abbia mai potuto appiccicarsi su quelle ossa così solenni, così piene di sé.
La carne è come un’impostura, un inganno, un travestimento che non copre niente.
Era dunque soltanto questo? E se non vale di più, come mai riesce a ispirarmi repulsione o terrore?
Cioran ha sempre avuto una predilezione per coloro che sono stati assillati dalla nullità della carne, che le hanno dato grande importanza: Baudelaire, Swift, Buddha… Benché così evidente, essa è un’anomalia: più la consideriamo, più ce ne distogliamo con orrore; e a furia di scrutarla ci s’incammina verso il minerale, ci si pietrifica. Per sopportarne la vista, o l’idea, ci vuole assai più che coraggio: ci vuole cinismo.
Ci si inganna sulla sua natura quando, come Gregorio Nazianzeno, la si dice notturna; e le si fa anche troppo onore; non è né strana né tenebrosa, è deperibile fino all’indecenza, fino alla demenza; non solo è sede di malattie, è essa stessa malattia, incurabile niente, finzione degenerata in calamità.
Forse ho torto a pensarci sempre; non si può vivere e insieme appesantircisi sopra; non ce la farebbe nemmeno un gigante. Invece io la sento più di quanto sia permesso sentirla; ed essa ne approfitta, mi costringe a conferirle uno status sproporzionato, e a tal punto mi accaparra e mi domina, che ormai il mio spirito non è altro che viscere.
Accanto alla solidità, alla serietà dello scheletro, appare comicamente frivola e provvisoria. Adula e soddisfa quel drogato di precarietà che sono io.
Forse vi disturberà questa mia euforia d’universo ripulito della carne, la mia giubilazione del post vitam. Forse la mia visione potrebbe condividerla un becchino che avesse un’infarinatura di metafisica.
Concludiamo la visita la museo con lo scheletro dell’uomo, con l’uomo in piedi.
Tutti gli altri animali stanno curvi, avviliti, oppressi, perfino la giraffa, nonostante quel collo, perfino l’iguanodonte, grottesco nella sua volontà di raddrizzarsi. Più vicino a noi, l’orangutan, il gorilla, lo scimpanzé – tutte le pene che si son prese per tenersi dritti sono in pura perdita. I loro sforzi non hanno avuto successo e se ne restano lì, miserevoli, fermi a mezza strada, contrariati nella loro ricerca di verticalità. Gobbi, insomma. È certo che saremmo ancora come loro, se non avessimo avuto la fortuna di fare un passo avanti decisivo. Da allora, ci si ingegna a cancellare ogni traccia della nostra bassa estrazione; di qui, quell’aria provocante, così peculiare dell’uomo. Accanto a lui, con quel suo modo di stare e le arie che si dà, perfino i dinosauri sono timidi. Ma poiché le sue vere sconfitte sono appena cominciate, avrà tutto il tempo di metter giudizio. Tutto lascia prevedere che, tornando alla sua fase iniziale, ritroverà questo scimpanzé, questo gorilla, questo orangutan, e sarà di nuovo simile a loro, e gli sarà sempre più malagevole traballare nella sua posizione verticale. Anzi, può darsi che, stremato dalla stanchezza, diventi ancora più curvo dei suoi compagni di un tempo.
Giunto alle soglie della senilità, forse si ri-scimmierà: e non si vede che altro di meglio potrebbe fare.

domenica 26 febbraio 2012

Un pezzo di merda prescritto, rimane pur sempre un pezzo di merda


La sentenza di ieri che ha deciso la prescrizione di Berlusconi può essere, anzi deve essere, tradotta così.
La prescrizione è scattata dieci giorni fa, grazie all’ultima disperata mossa degli avvocati Ghedini e Longo: la ricusazione dei giudici.
Nonostante la prescrizione sappiamo tutti che Berlusconi è colpevole.
Basta vedere cosa stabilì la Cassazione e cioè che Mills nel 1999, fu corrotto dalla Fininvest con 600 mila dollari nell’interesse di Berlusconi, in cambio di due false testimonianze – come aveva Mills stesso confidato al suo commercialista – salvando da un mare di guai l’amico Silvio.
Cioè gli aveva risparmiato la condanna per le tangenti Fininvest alla Guardia di Finanza. Condanna che avrebbe fatto di Berlusconi un pregiudicato nel 2001, con prevedibili e giusti effetti a catena: niente più attenuanti generiche negli altri processi, dunque niente prescrizione dimezzata, ergo una raffica di condanne che ce lo avrebbero tolto per sempre dalle palle dal punto di visto politico facendoci risparmiare almeno dieci anni di indegno, schifoso e umiliante regime berlusconiano.
Diciamo qualcosa sulla prescrizione.
Quando fu commesso il reato, nel 1999, la prescrizione per la corruzione giudiziaria scattava dopo 15 anni: dunque il reato si sarebbe estinto nel 2014. Ma nel 2005, appena scoprì che la Procura di Milano l’aveva beccato, Berlusconi impose la legge ex Cirielli, che tagliava la prescrizione da 15 a 10 anni. Così il reato si estingueva nel 2009. Per questo la Cassazione, nel febbraio 2010, ha dovuto prescrivere il reato a carico del corrotto Mills (pur condannandolo a risarcire lo Stato italiano). E per lo stesso motivo ieri il Tribunale di Milano ha dovuto fare altrettanto con il corruttore Berlusconi.
Un’ultima annotazione.
Fra il calcolo della prescrizione proposto dal pm Fabio de Pasquale e quello suggerito dagli avvocati difensori di Berlusconi, il Tribunale ha scelto quello degli avvocati: giusto per smentire quegli stronzi che ancora parlano del Tribunale di Milano come luogo infestato dalle toghe rosse.
Anzi, a dirla tutta, questi giudici vanno spesso a favore del piduista magagnone, visto che costui incassa la sesta prescrizione a Milano.
Le altre cinque accertarono che Berlusconi comprò Craxi con 23 miliardi di lire, comprò un giudice per fregarsi la Mondadori e taroccò tre volte i bilanci del gruppo per nascondere giganteschi fondi neri usati per comprare tutto e tutti.
Concludendo, io non ho mai votato per questo schifoso, non mi faccio ingannare dalla propaganda delle tv o infinocchiare dalle parole vomitevoli di gente come Alfano, quel piduista di Cicchitto o del diversamente intelligente di Gasparri.
Mi fanno pena solo quelli che ci cascano e credono Silvio un perseguitato.

venerdì 24 febbraio 2012

Donne visibili che sarebbe meglio fossero invisibili


Abbiamo molto lottato per i pari diritti delle donne, sia in campo sociale che in quello politico.
Le quote rosa, le battaglie perché le donne potessero ambire a posti importanti e di comando come gli uomini, ecc. ecc. ecc.
Tutto giusto, direi sacrosanto.
Però il problema vero, ora, è un altro. Io lo chiamo il problema del neutro.
Noi italiani, linguisticamente, siamo più poveri dei Latini o dei Tedeschi perché abbiamo solo due generi: il maschile e il femminile, ma non conosciamo il terzo genere che è quello del neutro.
Il potere, il comando, i posti di responsabilità, non sono né maschili né femminili, ma neutri.
Il Potere è un entità neutra che se ne frega se tu sia maschio o femmina, vuole solo essere servito e riverito, dando in cambio soldi e potere.
Anche la Politica è un’entità neutra che se ne fotte della distinzione maschile/femminile. È un ingranaggio che stritola le migliori intenzioni, che è capace di far emergere la feccia del Paese e che serve solamente a far intascare soldi ai suoi “schiavi” e a servire un’altra entità neutra: l’Economia.
Basta guardare l’attualità e ci rendiamo contro che o maschio o femmina non cambia un cazzo. La salvezza, e uso con dolore questa parola, non verrà dalle donne ma da eroi che sapranno essere più forti delle malefiche Istituzioni che vanno a servire.
È stata una vittoria per l’Italia avere un ministro dell’Istruzione donna come la Gelmini? Io non credo proprio. Anzi, ha sparato spesso cazzate colossali facendo più danni che altro (ve la ricordate la storia del tunnel del Gran Sasso?, giusto per fare un esempio).
Per quanto riguarda la politica che benefici abbiamo avuto da donne quali Alessandra Mussolini, Daniela Santanchè, Gabriella Carlucci, Paola Binetti, Nicole Minetti e Mara Carfagna? Leggendo questi nomi mi viene voglia di abolire le quota rosa, davvero.
A RaiDue ci hanno piazzato Lorenza Lei e allora? È pur sempre una serva della politica, della tv pubblica lottizzata.
Hanno fatto presidente di Confindustria una donna, Emma Marcegaglia. E quindi? L’industria e l’imprenditoria italiana sono in mani migliori?
Monti ha nominato tre ministri donne - bene, bravo. La Fornero si fa la chiagnuta in diretta però poi il popolo con le pensioni se la piglia in culo lo stesso. Paola Severino alla Giustizia e Anna Maria Cancellieri aspetto un altro po’ per giudicarle, ma intanto alcune dichiarazioni della Severino non mi sono piaciute per niente.
Susanna Camusso è diventata segretaria della CGIL, ma mi sembra che non sia in grado di contrastare il potere del Governo e della Confindustria e quindi di tutelare i lavoratori. In più aspetto che faccia chiarezza sui soldi pubblici e gli imbrogli vari dei CAAF.
Per quanto riguarda la televisione, Emma Marrone ha vinto il Festival di Sanremo, ma uomo o donna Sanremo mi fa sempre cacare.
L’altra sera da Bruno Vespa era pieno di ospiti donna. Alba Parietti che non ho capito che cazzo ci fa sempre in tv. Ma che ha da dire alla gente sta femmina? Una volta finito di girare i filmetti softcore gente simile dovrebbe sparire tra gli anonimi. C’era pure Anna Kanakis che ora veniva presentata come scrittrice. Ma sticazzi! Lo vorrei proprio conoscere uno che esce di casa per andarsi a comprare il libro della Kanakis.
Le uniche che salvo in questa attualità deludente sono Belèn Rodriguez e Sara Tommasi.
Almeno loro, con lo sventolare la farfallina, mostrare il culo e spaparanzare le tette, una importante e insostituibile funzione sociale la svolgono.

giovedì 23 febbraio 2012

Scusi, conosce la via della goduria? Ma certo. Deve andare al n° 51 di Walt Whitman street nel quartiere di Leaves of Grass


Avevo attraversato quattro continenti.
Percorso come in un sogno le contrade della madre, del padre, del mare e della morte – fino a quando non ho deciso di fermarmi in un vastissimo prato dove ho respirato a pieni polmoni aria fresca che ha ispirato al mio petto un canto d’amore: d’amore universale, per gli esseri umani, per la mia terra, per gli animali, per la natura e le sue parti, per i prodotti degli uomini, per le idee, per un’idea sopra ogni altra, per la democrazia.
Ho cominciato a non respingere nulla, a far sì che dentro di me tutto respirasse, tutto crescesse vigorosamente, sperando ardentemente che giungesse a maturazione, in una democratica convivenza.
Mi sentivo l’origine e il fine di ogni meravigliosa semenza umana.
Poi, a un tratto, ho cominciato a sentir dolore. Soffrivo d’amore. Mi sembrava che pian piano mi trasformassi in una macchina a vapore, una specie di locomotiva. Tutto quel vapore, quella pressione... No, no! Io non voglio tutta quella roba dentro di me, tante grazie.
E così sono ripartito, senza meta, senza ricordi.
Vagavo come un reietto per le strade di New York finché mi salvò questa poesia, e soprattutto un verso di questa poesia.
Uno dei versi più belli che siano mai stati scritti.

51.

Il passato e il presente avvizziscono – io li ho riempiti, svuotati,
E mi appresto a riempire la prossima cavità del futuro.

Tu che ascolti lassù! Che hai da confidarmi?
Guardami in faccia mentre fiuto l’avanzare furtivo della sera
(Parla sinceramente, nessun altro ti udrà, io resto solo un minuto).

Mi contraddico?
Ebbene sì, mi contraddico
(Sono spazioso, contengo moltitudini).
Mi concentro sui più vicini, resto sul limitare della porta.


Chi ha compiuto la sua giornata di lavoro? chi sarà il più veloce a finire la cena?
Chi desidera camminare con me?

Vuoi parlare prima che io sia partito? vuoi cimentarti quando è troppo tardi?

mercoledì 22 febbraio 2012

La prostituzione dei punti esclamativi!!!

(nella foto, Stéphane Hessel da giovane durante la Rivoluzione Francese)

Correva l’anno 2010 dopo Cristo, ottobre per la precisione, quando nelle librerie fece la sua comparsa un libriccino scritto da un vecchio partigiano, Stéphane Hessel, dal titolo Indignez-vous!
Diventato un caso editoriale in Francia, l’opuscolo ha spopolato in tutto il mondo dando anche vita al movimento degli Indignados.
Il testo, tradotto in italiano col titolo di Indignatevi!, è “un pamphlet liberatorio e corrosivo dove si cerca di risvegliare nelle coscienze dei cittadini i valori tramandati dalla Resistenza, dove la voglia di giustizia e di uguaglianza, dove la società del progresso per tutti erano i sacri ideali. L’opera di Hessel serve a ricordarci che le cose che non vanno sono gli eventi di una quotidianità fatta di ingiustizie e di orrori come le guerre, le violenze, le stragi. Hessel parte da qui, per indicare a tutti quali sono i motivi per cui combattere e per cui tenere alta l’attenzione. L’indignazione è il primo passo per un vero risveglio delle coscienze, e il grido di Hessel ce lo ricorda con fermezza e convinzione”.
E fin qui tutto bene, tutto giusto. Del volumetto di Hessel vi parlerò in seguito, perché sono qui per un altro motivo.
Quello che mi dà fastidio è il sorgere di pseudointellettuali cialtroni che, spinti da una calcolata e interessata foga imitativa, sfornano titoli simili sperando di eguagliare il successo di vendite (e non solo) dell’opera originale.
In pochi mesi sono arrivati nelle librerie: Ripartiamo! Scegliete! Liberatevi! Godete! Liberiamo Babbo Natale! Giocate! E chissà quanti altri libri col punto esclamativo nel titolo usciranno ancora.
Certo, gli editori possono inventarsi tutte le cacate che vogliono. Possono dire, per esempio, che sono orgogliosi di aver creato il “pamphlet esclamativo” come nuovo genere letterario.
Possono dire che in questi tempi di crisi dei valori c’è bisogno di questi libri che esortano a interessarsi della realtà che ci circonda, di scendere in piazza ecc. Possono pure dire, addirittura, che grazie a loro sta nascendo un neo-civismo (sì, lo so. Questa parola fa vomitare anche me) che risolleverà le sorti della politica corrotta, con una nuova e consapevole partecipazione popolare.
La verità è che è solo volgare imitazione, imitazione di un libro che ha avuto successo. Mi sa tanto di pura porcata editoriale.
Io l’imitazione la concepisco solo come parodia, come ironia, come eversione.
Fossero usciti Scopate! Trucidate! Bestemmiate! Vomitate! Trincate! Impiccate! Allora sì che sarei stato d’accordo e sarei corso in libreria.
Ma sinceramente questi neo-pamphlet che non hanno nulla di comico o di eversivo, che non vogliono épater le bourgeouisécraser l’infame, li lascio a quei frosclen dei radical chic.
Se ho voglia di un pamphlet serio, scritto coi contro coglioni, vado da Lenin, non da questi culi mosci delle rivoluzioni da salotto.

martedì 21 febbraio 2012

Volontà di potenza. Un assaggio


Tutti, anche i profani più ignoranti in filosofia, conoscono l’espressione “volontà di potenza” coniata da Federico Nietzsche.
Ma quanti davvero hanno capito, penetrato con spirito filosofico, quella celebre espressione? Da quello che leggo in giro, quasi nessuno.
C’è chi crede che la volontà di potenza sia ammazzare chi ci sta sul cazzo, mandare nei forni crematori gli ebrei, volare sopra i grattacieli come Superman, poter mangiare 15 kg di patatine fritte al giorno senza avere problemi di colesterolo e altre cazzate del genere.
Purtroppo Nietzsche è stato banalizzato da pataccari come D’Annunzio e strumentalizzato dal regime nazisti e gentaglia varia.
Io vi consiglio di leggerlo personalmente, per fatti vostri, senza farvi influenzare da nessuno.
Questo vale per tutti i filosofi, ma per Nietzsche specialmente e poi, ve ne renderete conto, Federico non è palloso, anzi. È una pura goduria estetica e, questo, non vale affatto per tutti i filosofi.
Stasera vi dono un assaggio sulla volontà di potenza contenuto nell’opera Al di là del bene e del male.
Enjoy.

I fisiologi dovrebbero riflettere prima di stabilire l’istinto di conservazione come istinto cardinale di un essere organico. Un’entità vivente vuole soprattutto scatenare la sua forza – la vita stessa è volontà di potenza: - l’autoconservazione è soltanto una delle indirette e più frequenti conseguenze di ciò. – Insomma, in questo come in qualsiasi altro caso, guadiamoci dai princìpi teologici superflui! Così infatti vuole il metodo, che deve essere essenzialmente economia di princìpi.

lunedì 20 febbraio 2012

Per gli analfabeti [Pour les analphabètes]


L’anarchia, senza ordine né legge, le leggi e i comandamenti non esistono senza il disordine della realtà, il tempo è la sola legge.
Continuerò a disarticolare ogni cosa, nella vita degli universi, perché il tempo sono io.
La rivolta generale degli esseri è stata un sogno che ho osservato come un albero, nel mio angolo, con l’epidermide delle mie mani, e non ero né morto né distrutto, ma nel corpo da qualche parte.
Sono una macchina che funziona benissimo e parte al primo colpo e sono gli esseri che, con la dialettica, fanno sorgere falsi problemi per comprendere esplicitamente quello che dico: che la mia testa funziona.
Seguo la mia strada nell’onestà, nel contegno, l’onore, la forza, la brutalità, la crudeltà, l’amore, l’acredine, la collera, l’avarizia, la miseria, la morte, lo stupro, l’infamia, la merda, il sudore, il sangue, l’urina, il dolore.
Non sono l’intelligenza o la coscienza ad aver fatto nascere le cose ma il dolore mistero del mio utero, del mio ano, della mia enterocolite, che non è un senso, caro signor Freud, ma una massa ottenuta solo soffrendo senza accettare il dolore, senza rivendicarlo, senza imporselo, senza starselo a cercare …
Non c’è scienza, c’è solo il niente, e non la supereranno la loro scienza se credono. Non si può vivere con tutti questi parassiti mentali attorno. Io sono colui che ha voluto rendere inutile il segno della croce.
Il dubbio, l’incostanza, l’ignoranza, l’inconseguenza non costituiscono uno stato alterato, ma il solo stato possibile, non esiste l’essere innato che avrebbe infusa la luce, la luce si fa vivendo, ma la sua natura reale è tenebrosa, non riempie mai lo spirito di consapevolezza, ma della necessità di accatastare il suo essere, di raccoglierlo al centro delle tenebre, affermazione consistente di un essere, di una forma che con la sua misura e i suoi appetiti si affermerà, l’essere, non dio, nessun principio innato.
Io non sono mai andato a dire agli intellettuali: che cosa volete?
Neppure li ho mai biasimati, li ho solo scandalizzati con la lingua e i colpi. L’idea che ho di me è che non so nulla e sento sempre qualcosa di diverso in merito a un’idea del dolore e dell’amore che non può non uscirne.
Non ho mai amato l’atmosfera delle case di correzione e non accetto che me la si applichi.
Lo ripeto, a guidarmi non è l’orgoglio letterario dello scrittore che vuole piazzare e veder pubblicato il suo prodotto. Sono i fatti che racconto che voglio che nessuno ignori, i gridi di dolore che lancio e che voglio siano sentiti.
No, io, Antonin Artaud, no e poi ancora no, io, Antonin Artaud, non voglio scrivere se non quando non ho più niente da pensare. Come chi divori il proprio ventre, l’aria del suo ventre, da dentro.
Sotto la grammatica si nasconde il pensiero che è un obbrobrio più difficile da battere, una vergine molto più renitente, molto più difficile da superare quando lo si prende per un fatto innato.
Perché il pensiero è una matrona che non è sempre esistita.
E che le parole gonfie della mia vita si gonfino nel vivere del bla-bla dello scritto.
Io scrivo per gli analfabeti.

P.S. Bisogna pagare degli ignoranti assoluti con denaro e buone parole per trasportare oppio, e fucilare i soldati, per vestirsi con abiti civili e assassinarli tutti, i soldati.
Liberare l’oppio dell’Afghanistan …

domenica 19 febbraio 2012

Voi la sapete scrivere un'orazione funebre?

[Mia madre è una tipa un po' particolare. L'altro giorno doveva andare al funerale della madre di una sua collega e siccome doveva parlare, mi ha chiesto di scrivere qualcosa. "Ma, mamma, io manco la conoscevo a questa!" ho obiettato. "Non fa niente, a mamma. Tu sei bravo". E così ho scritto questa orazione. E' pur sempre un modo per esercitarsi nella scrittura.]


Parlare di una persona come donna Alberta è complicato e semplice allo stesso tempo; complicato perché sembra che le parole usate siano banali, semplice perché basta usarne poche: fede, signorilità, alto senso morale, lealtà, ricchezza interiore, amore, amore a piene mani per la sua terra, la sua patria, i suoi affetti, per il venerato padre, il marito, le figlie, il genero che era come un terzo figlio, gli adorati nipoti e le pronipotine.
Donna Alberta era una gran signora dal parlare pacato e saggio, dal cuore sempre pronto a donare, incrollabile nella fede e nei suoi valori che sono stati il cardine della sua vita e che ha trasmesso con dolce tenacia alla sua famiglia e agli amici.
Io ebbi la fortuna di conoscerla sul posto di lavoro, nell’ormai lontano 1996.
Piano, piano donna Alberta divenne l’amica, la confidente, la consigliera di tanti di noi della scuola media Vittorio Alfieri. Che mente aperta! Che lungimiranza, che tesoro di esperienza e di saggezza!
Le sue parole erano balsamo che componevano i nostri dissapori e alleviavano le nostre fatiche e noi, che pensavamo di tenerle compagnia, capimmo che era lei l’anima, lo spirito giovane e indomito che ci aiutava a superare i momenti di difficoltà.
Ciao donna Alberta, quante vite hai toccato e quanto amore hai saputo suscitare intorno a te!
Noi continueremo a camminare nei tuoi passi, tracciati sulla terra a volte amara, ti ricorderemo sempre nei nostri pensieri e ti ritroveremo in Rosanna, Floriana, Renato, Filomena, Virna, Rosetta e la piccola Teresa che tanto ti hanno amato.

sabato 18 febbraio 2012

La cesura poetica di Paul Celan


Innanzitutto non fate i fighi dicendo Pol Selàn, come dei frosclen parigini, perché Paul Celan è nato in una città rumena che oggi appartiene all’Ucraina, ha studiato lingua e letteratura tedesca e quindi con la Francia Celan c’entra poco o nulla.
Nel 1948, Celan fa stampare il suo primo libro di poesie intitolato La sabbia delle urne. Poco tempo dopo, però, decide di ritirare il testo e di mandarlo al macero.
Questo fatto mi ha incuriosito, un piccolo giallo poetico che m’è piaciuto approfondire.
Approfondimento che ho potuto fare grazie al volume Poesie sparse pubblicate in vita edito da Nottetempo.
Celan, sul finire degli anni ‘40 del Novecento, sente che la sua poesia, così vicina all’avanguardismo (in particolare il surrealismo di Paul Èluard), è troppo artificiosa.
Il non volere che i propri versi siano un puro gioco artistico, un divertimento che puzza di art pour l’art, il rischio che la sua poesia possa essere identificata con il modernismo, la logica movimentista e altri movimenti che lui riteneva ormai superati o scaduti in uno sterile manierismo, sono i motivi principali di una vera e propria cesura poetica. D’altronde Celan vive in un’epoca che, per la sua inaudita ferocia, non ha più bisogno di essere straniata o resa ulteriormente surreale attraverso una poeticità guidata da manifesti e gruppi.
Io sto rileggendo alcune poesie cercando di carpire il cambiamento di stile e di argomenti della poetica celaniana.
Uno cambiamento che mi pare che vada dalla classica Gedichte degli anni della Seconda guerra mondiale alla libera sperimentazione linguistica del Verse negli anni ’60.
Quindi, appurato che il 1948 può essere considerato l’anno della svolta e del ripensamento di Celan della propria arte, vi posto un assaggio di questa cesura con Il tempo entra ferreo scritta nel 1944 (dove troviamo sequenze lussureggianti ed esotiche) e Come il tempo si dirami del 1949 (in cui la poesia sembra volgersi verso un’etica della parola e al verso 11 fa capolino uno stilema talmudico).

IL TEMPO ENTRA FERREO nella sua ultima era.
Soltanto tu sei qui d’argento.
E piangi a sera la farfalla purpurea.
E ti lamenti della nube con la fiera.

Non che il tuo cuore mai abbia visto tramonto
e mai tenebra comandato all’occhio tuo…
Della luna però la tua mano reca ancor traccia.
E nelle acque resiste ancora un raggio.

Come farà chi su celeste ghiaia
danzò con le ninfe, lieve,
a non pensare che una freccia di Artemide
nel bosco ancora vaga e infine lo raggiungerà?
COME IL TEMPO SI DIRAMI,
il mondo più non sa.
Dove intona l’estate,
un mare ghiaccia.

Donde vengano i cuori,
sa l’oblio.
In cassa, armadio e scrigno
Il tempo cresce vero.

Forma una bella frase
Di grande dispiacere.
In quel determinato posto
Sarà certo per te.

venerdì 17 febbraio 2012

17 febbraio 1992-17 febbraio 2012. Ventennale di Mani Pulite


In questi giorni ho letto molti articoli e alcune interviste sulla vicenda Tangentopoli. Ho privilegiato, per questo post, l’articolo di Ida Dominijanni apparso su il Manifesto.
Il 17 febbraio del 1992, Mario Chiesa, il presidente socialista del Pio Albergo Trivulzio, fu arrestato perché colto in flagrante mentre intascava una mazzetta di 7 milioni di lire.
Quell’arresto segnò l’inizio di Tangentopoli, dell’inchiesta Mani Pulite e la fine della Prima Repubblica.
Sembrava, e lo ricordo bene anche se avevo solo tredici anni, l’inizio di un’epoca nuova.
Quest’epoca nuova, dopo soli due anni, si rivelò un incubo visto che in politica entrò quel magagnone, piduista, mafioso di Silvio Berlusconi.
Epoca nuova? A’ faccia do cazz.
Proprio in questi giorni il presidente della Corte dei conti ha fatto un quadro dello stato “dilagante” della corruzione che rispetto a vent’anni fa non accenna a arretrare e che è stata combattuta con lo strumento sbagliato, la chirurgia penale, e non con quello giusto, una riforma della pubblica amministrazione. Secondo alcune stime, 60 miliardi di euro all’anno se ne vanno in fumo fra mazzette, prebende, incarichi illegittimi: il tutto mentre affoghiamo nella crisi economica che tutti conosciamo.
Questo sarebbe potuto essere un ventennale da festeggiare, il 17 febbraio un giorno che avrebbe potuto rappresentare il giorno del riscatto civile, questo post avere un tono allegro e orgoglioso, ma non è così.
Dopo Tangentopoli abbiamo vissuto (e subìto, lo voglio dire) almeno 17 anni di berlusconismo.
Diciassette anni che non hanno fatto altro che peggiorare le cose e la situazione mi sembra addirittura più penosa di vent’anni fa.
Salutato come un nuovo inizio, in realtà la vicenda Mani pulite ha dato vita a una situazione paradossale che si può riassumere in quattro punti.
Salutato come un nuovo inizio, Tangentopoli ha aperto in realtà una lunga stagione di restaurazione.
Cominciato all’insegna della rivolta antipartitocratica, ha dato la stua a un umore antipolitico sempre più dilagante, che oggi non fa distinzioni e non cerca prigionieri.
Magnificato come l’ingresso dell’Italia in una “normalità” democratica non più gravata dai blocchi ideologici novecenteschi, ha aperto al strada alla “eccezione” berlusconiana.
Vissuto come la vittoria della legalità delle procure sull’illegalità della classe politica, ha premiato per diciassette anni una classe politica che dell’illegalità ha fatto la sua bandiera e scatenato un conflitto truccato tra potere legislativo e potere giudiziario.
Oggi viviamo la tecnocrazia di Mario Monti, un regime bianco passeggero in attesa dell’ennesima restaurazione politica. La corruzione è sempre lì, ancora più forte e impunita.
Il 17 febbraio 1992 fu l’inizio di una nuova èra … ma nuova èra de che?

giovedì 16 febbraio 2012

CAPIRE L'ARTE

(Salvador Dalì, La persistenza della memoria, 1931)

Per capire un’opera d’arte è necessario seguire alcune metodologie di analisi e prefissarsi di raggiungere degli obiettivi cognitivi. Si tratta quindi di considerare e “praticare” alcuni mezzi di valutazione estetica e comunicativa dell’arte.
Seguendo Capire l’arte di Ave Appiano riassumerò, nei post che seguiranno, otto diversi percorsi d’analisi che ci serviranno per formulare e fornire strumenti di comprensione attraverso i quali, individuate le caratteristiche strutturali – punteggiate da parole-chiave –, si possano mettere in evidenza alcune componenti dell’opera d’arte.
Con gli strumenti di base provenienti da diverse metodologie interpretative ci si propone di giungere a una rete di riferimenti interni, esterni e contigui all’opera d’arte considerata come “testo”.
Mettere in luce all’interno dell’opera le fonti e le correlazioni culturali, le reminiscenze figurative dei temi, la tradizione del modello e del linguaggio figurativo, e proiettare questi elementi al di fuori dell’opera stessa nel sistema della cultura, significa adottare un metodo di studio aperto, che si riveli produttivo; fecondo.
Qualsiasi tipo di studio dell’arte si affronti esso comporta due atteggiamenti di fondo: il primo è dato dalla necessità di soddisfare un interesse, una curiosità culturale sostenuta da una passione, il piacere di capire l’opera d’arte, senza il quale qualsiasi analisi è vana; il secondo è dato dalla volontà e insaziabilità nella ricerca, senza la quale lo studio andrebbe irrimediabilmente a inaridirsi.
Erwin Panofsky ha tratteggiato i punti principali che costituiscono il “bagaglio necessario all’interpretazione”, ossia definisce gli strumenti fondamentali dell’”atto interpretativo”, sintetizzabili in base a questi punti:
- esperienza pratica (familiarità con oggetti ed eventi artistici);
- conoscenza delle fonti letterarie (familiarità con specifici termini e concetti);
- intuizione sintetica (familiarità con le tendenze essenziali dello spirito umano, condizionata dalla psicologia e dalla visione del mondo personale)
Ave Appiano si prefigge di suggerire percorsi di comprensione dell’opera d’arte in modo da “far scattare” la passione per l’arte, esplicando strumenti di analisi atti a provocare interventi creativi sull’opera.
Come ha scritto Mukarovsky “l’individuo esercita nell’arte una duplice funzione: quella di creatore e quella di soggetto percettore (fruitore). A prima vista queste due funzioni sembrano irrimediabilmente opposte, poiché la prima presuppone un atteggiamento attivo, la seconda uno passivo. Ma la loro opposizione non è né assoluta né netta”; l’arte, come il linguaggio, attiva un “dialogo ininterrotto” fra “due parti interdipendenti”.
Usando Paint (e scusate l’artigianalità) ho riassunto, con uno schema, gli otto percorsi di comprensione dell’opera.
Nei prossimi post ci accosteremo ai principi dello strutturalismo e della semiotica (in quanto l’opera d’arte è un oggetto comunicativo costituito di segni visivi che funzionano in un contesto figurativo e in un ambiente culturale); agli studi di psicologia della forma (in quanto l’arte figurativa è anzitutto immagine composta di strutture che ricostituiscono dei modelli presenti nel pensiero); agli studi di iconologia (in quanto l’espressione iconografica è veicolo di un significato determinato dal modello culturale); alle teorie psicoanalitiche, al metodo storico e alla teoria dell’arte come fatto sociale.
Concludo facendo cenno alla retorica, in quanto l’elemento figurativo funziona anche, nell’obiettivo comunicativo globale dell’opera, come elemento persuasivo, produttore di effetti controllabili.

mercoledì 15 febbraio 2012

Stasera si vive di Klimt

(Ritratto di Emilie Floge)

Il Bacio fu esposto alla Kunstschau del 1908, dove Klimt ottenne un doppio riconoscimento pubblico: il Ritratto di Emilie Floge venne acquistato dalla città di Vienna, mentre proprio Il Bacio, ritenuta l’opera migliore della mostra, fu comprato dallo Stato austriaco per la Galleria d’Arte Moderna. L’artista veniva così, dopo tante polemiche, nuovamente lodato. L’opera non poteva non incontrare il favore degli spettatori, per la celebrazione appassionata, ma al contempo delicata, del tema amoroso e per lo stile fiorito, che restituiva, secondo Hevesi, un’immagine festosa del mondo.
(Fregio di Beethoven [particolare])

L’immagine era ormai cara a Klimt, che l’aveva utilizzata due volte in chiave simbolica, nel finale del Fregio di Beethoven e in uno dei pannelli per il Palazzo Stoclet. Questa volta, però, la rappresentazione non allude a nient’altro che a se stessa e l’artista esalta un momento di intimità comune a ogni essere umano. La coppia è collocata in uno spazio irreale, congegnato per evidenziare il momento dell’estasi. Una striscia di prato fiorito fornisce un ancoraggio visivo, mentre il resto dello sfondo è realizzato, con una tecnica che Klimt utilizza nel contemporaneo Ritratto di Adele Bloch-Bauer, come un cielo punteggiato di pagliuzze dorate.
(Il Bacio)

L’oro è nuovamente il colore predominante, scelto per l’edera che ricade sulle caviglie della donna, per gli abiti e per la campana protettiva che avvolge gli amanti. Le due figure sono differenziate attraverso la cromia e l’ornamentazione, dove i rettangoli neri, bianchi e argentati che appaiono nella veste dell’uomo sono sostituiti da motivi ondulati, cerchi e bouquet di fiori stilizzati in quella della compagna.
Le mani acquistano come sempre un’evidenza particolare e i gesti contribuiscono a costruire l’atmosfera di beatitudine dell’opera, che viene spogliata da connotazioni sensuali per insistere piuttosto sulla felicità e la tenerezza del bacio.

(Ritratto di Adele Bloch-Bauer)

martedì 14 febbraio 2012

La libellula


La casa editrice Mondadori ha lanciato una nuova collana editoriale chiamata “LIBELLULE”.
Io per ora ho preso il volume di Camilleri il diavolo, certamente e di sicuro, appena uscirà, comprerò anche il libro di uno scrittore americano contemporaneo che m’interessa molto scoprire: William T. Vollman.
In attesa di recensire Camilleri e di dirvi com’è questo Vollmann (e magari pure di aggiornarvi con altri scrittori e titoli della collana), vi posto questo componimento sulla libellula scritto da Raffaele La Capria che ho trovato molto bello.
La libellula non sarà poetica come la farfalla o suggestiva come la lucciola, ma grazie a questa poesia di sicuro avrà un meritato momento di celebrità.

Libellula, chi ti diè questo nome?
Chi scelse la successione musicale delle labiali,
li-bel-lu-la,
come note uscite dai tasti di un pianoforte?
Due grandi e colorate ali trasparenti, tremule e trepide, quelle sei tu.
E tanto alata sei che quando sorvoli le acque stagnanti e l’erbe dei prati
di te solo le ali si vedono, velate veline di seta lucente.
A volte ti fermi nell’aria, tu, senza peso e imponderabile, leggera aligera.

Se lieve sulla pista di ghiaccio io vedo una fanciulla
che forma aeree figure danzanti, e sicura volteggia, salta, si leva e atterra,
è a te che penso, a te paragono la sua leggerezza.
“Come una libellula”
vuol dire una controllata eleganza in una liberata energia.

E controllata eleganza e liberata energia, come la tua, cerca nelle sue frasi
lo scrittore mentre vola la sua fantasia
e a volte si ferma – come fai tu – e a volte arretra – come fai tu –,
sospeso anche lui e oscillante, accampato a mezz’aria.
Libellula, bella libellula, dai a lui le tue ali.

lunedì 13 febbraio 2012

O Fortuna [una confessione]


Devo confessare una mia ignoranza: ho sempre creduto che i Carmina Burana fossero un'opera di Wagner.
Faccio penitenza.
Innanzitutto i Carmina Burana sono testi poetici contenuti in un importante manoscritto del XIII secolo, il Codex Latinus Monacensis o Codex Buranus, proveniente dal convento di Benediktbeuern (l'antica Bura Sancti Benedicti fondata attorno al 740 da San Bonifacio nei pressi di Bad Tölz in Baviera) e attualmente custodito nella Biblioteca Nazionale di Monaco di Baviera.
Nel 1937, il compositore tedesco Carl Orff (e non Wagner) musicò alcuni brani dei Carmina Burana, realizzando un'opera omonima. Orff scelse di comporre una musica nuova, sebbene nel manoscritto originale fosse contenuta una traccia musicale per alcuni dei brani.
Non è tanto la mia ignoranza a farmi male, ma la pigrizia che mi ha impedito per tanto tempo di sapere la verità e questo nonostante i Carmina Burana mi piacciano tantissimo.
Vi posto il testo e la musica di O fortuna, entrambe strepitose.

O Fortuna
velut luna
statu variabilis,
semper crescis
aut decrescis;
vita detestabilis
nunc obdurat
et tunc curat
ludo mentis aciem,
egestatem,
potestatem
dissolvit ut glaciem.

Sors immanis
et inanis,
rota tu volubilis,
status malus,
vana salus
semper dissolubilis,
obumbrata
et velata
mihi quoque niteris;
nunc per ludum
dorsum nudum
fero tui sceleris.

Sors salutis
et virtutis
mihi nunc contraria,
est affectus
et defectus
semper in angaria.
Hac in hora
sine mora
corde pulsum tangite;
quod per sortem
sternit fortem,
mecum omnes plangite!

domenica 12 febbraio 2012

Le malattie e le fisime di Proust


Sto leggendo il bel saggio di Alan De Botton, Come Proust può cambiarvi la vita, e tra le tante cose interessanti che vi ho trovato quella che finora mi ha divertito di più è la lista delle malattie che tormentavano la vita del grande Marcel.
La condivido con voi e conto, entro quest'anno, di cominciare a leggere À la recherche du temps perdu...

- Asma
Gli attacchi iniziano quando Proust ha dieci anni e continuano per tutta la vita. Sono particolarmente violenti, durano più di un’ora, e sono almeno dieci in un giorno. Poiché capitano più frequentemente di giorno, Proust vive di notte; va a dormire alle sette del mattino e si sveglia alle quattro o alle cinque del pomeriggio. Spesso gli è impossibile uscire, soprattutto d’estate, e quando deve farlo, è solo dentro un taxi sigillato. Le finestre e le tende del suo appartamento sono perennemente chiuse: non vede mai il sole, non respira mai aria fresca, non fa moto.
- La sua dieta
A poco a poco si trova costretto a fare un solo, inutile, pesante pasto al giorno, che gli deve essere servito almeno otto ore prima di quando va a letto. Descrivendo una sua cena standard a un medico, Proust racconta minuziosamente di due uova con salsa alla panna, un’ala di pollo arrosto, tre croissant, un piatto di patatine fritte, un po’ d’uva, del caffè e una bottiglia di birra.
- Problemi intestinali
“Vado spesso – e male – al gabinetto”, dice allo stesso dottore: e non c’è da stupirsene. Soffre di una stitichezza quasi permanente, che può alleviare solo ogni due settimane con un forte lassativo che di solito provoca dei crampi allo stomaco. Neanche urinare gli è facile, e quando riesce, ha forti bruciori; le analisi mostrano un eccesso di urea e di acido urico: “Chiedere pietà al nostro corpo è come parlare a una piovra, per la quale le nostre parole non possono avere più significato del suono delle maree”.
- Mutande
Bisogna che queste siano ben strette attorno allo stomaco perché Proust si possa addormentare; e devono essere fermate da una spilla particolare; una mattina lo scrittore la perse nel bagno e rimase sveglio tutto il giorno.
- Pelle ipersensibile
Non può usare saponi, creme o colonia. Deve lavarsi con asciugamani fini inumiditi, poi asciugarsi dandosi dei colpetti con del lino fresco (un bagno richiede in media venti asciugamani che, Proust precisa, devono essere portati all’unica lavanderia dove si usa il detersivo giusto: è la blanchisserie Lavigne, che fa anche il bucato a Jean Cocteau). Trova che i vestiti vecchi siano per lui meglio di quelli nuovi, e sviluppa un profondo attaccamento per le vecchie scarpe e i vecchi fazzoletti.
- I topi
Proust ne ha il terrore e, quando Parigi viene bombardata nel 1918, confessa di essere più spaventato dai topi che dai cannoni.
- Il freddo
Lo sente sempre. Anche in piena estate indossa un cappotto e quattro maglioni se è costretto a uscire di casa. Alle cene, di solito, tiene il cappotto. Tuttavia, le persone che lo salutano si sorprendono di sentire quanto siano fredde le sue mani. Temendo gli effetti del fumo, non permette che la sua stanza sia riscaldata adeguatamente, e si scalda per lo più con boule e golfini. Perciò ha spesso dei raffreddori e, in particolare, il naso che cola. Alla fine di una lettera a Reynaldo Hahn, dice di essersi pulito il naso ottantatre volte dall’inizio della lettera. La lettera è lunga tre pagine.
- Sensibilità all’altitudine
Tornando a Parigi dopo aver fatto visita a suo zio a Versailles, Proust prova un malessere e non riesce a salire le scale che portano al suo appartamento. In una lettera a suo zio, egli poi attribuisce il problema al cambiamento di altitudine. Versailles è a ottantatre metri sopra il livello di Parigi.
- Tosse
Tossisce molto forte. Parlando di un attacco di cui fu vittima nel 1917 Proust racconta: “I vicini avranno pensato che stesse tuonando o che avessi comprato un organo da chiesa o un cane, oppure che in seguito a qualche legame immorale (e puramente immaginario) con una signora, avessi generato un bambino con la pertosse, tanto spasmodico era il mio abbaiare”.
- I viaggi
Sensibile a ogni cambiamento delle sue abitudini quotidiane, Proust soffre di nostalgia e teme che ogni viaggio lo uccida. Quando, di rado, si trova lontano da casa, per i primi giorni si sente triste come certi animali quando viene la notte (non è chiaro quali animali abbia in mente). Vorrebbe vivere su uno yacht per potersi spostare senza dover uscire dal letto. Una volta, osò fare a Madame Straus, felicemente sposata, una proposta di questo genere: “Le piacerebbe se affittassimo una barca su cui non ci fosse il minimo rumore, per vedere tutte le più belle città dell’universo sfilarci davanti lungo la costa senza dover lasciare il nostro letto (i nostri letti)?”. La proposta non venne accolta.
- I letti
Proust ama il suo, ci passa la maggior parte del tempo e lo usa come scrivania e ufficio. Il letto fornisce una difesa dal crudele mondo esterno? “Quando si è tristi, è piacevole giacere al caldo nel proprio letto, e lì, alla fine di tutte le fatiche e gli sforzi, magari anche con la testa sotto le coperte, abbandonarsi ai lamenti, come rami al vento autunnale”.
- Vicini rumorosi
Proust ne era ossessionato. La vita in un condominio parigino è infernale, soprattutto quando qualcuno al piano di sopra sta facendo un po’ di esercizi musicali: “C’è qualcosa la cui capacità di esasperarci non sarà mai uguagliata da nessun essere umano: ed è un pianoforte”. L’esasperazione per poco non lo uccide quando, nell’aprile del 1907, incominciano a ristrutturare l’appartamento accanto al suo. Finisce col chiamare mucca la sua vicina, e quando gli operai modificano le dimensioni del suo gabinetto per ben tre volte, egli insinua che è per adattarlo al suo enorme didietro.
- Altre indisposizioni di vario genere
“Si pensa che le persone che sono sempre malate non abbiano mai anche le malattie più comuni”, dice Proust a Lucien Daudet, “e invece sì”. In questa categoria Proust include l’influenza, il raffreddore, la vista cattiva, difficoltà a deglutire, il mal di denti, i gomiti doloranti e le vertigini.

sabato 11 febbraio 2012

Il suicidio di Enrichetta Mann


Ho dovuto scrivere e riscrivere più volte la recensione de La montagna incantata perché non riuscivo a uscire da un’impasse che mi portava, inevitabilmente, a ficcarmi in una disputa che considero impropria al romanzo di Mann.
Sono convinta che un’opera come La montagna incantata non possa essere discussa scavalcando il testo, cercando “corrispondenze d’amorosi sensi” in un sottotesto immaginario estrapolando delle sequenze-brani e frasi che più si conferiscono al nostro sentire; nel bene e nel male. Usando una procedura così impropria, saremmo spinti a liquidare Mann come un letterato cinico e mistificatore; ergo bisogna percorrere ben altri sentieri ermeneutici.
Ho escluso innanzitutto le due strade più ovvie e battute e cioè ho vietato a me stessa di considerare Mann come l’artista, lo scrittore dialettico speculativo dell’animo umano, l’aedo della sua infelicità, della sua tendenza (astorica, potremmo dire) a ricercare l’assoluto e, altresì, credo fermamente che Mann non possa essere considerato un funambolo delle parole e nulla più.
Ho cercato di instaurare, col narratore esterno, un feeling che mi permettesse di dominare lo “stridio” (che è l’anima della dodecafonia); stridio che è prodotto dal doppio basso continuo narrativo, cioè dal tono con cui le vicende sono narrate e le cose narrate stesse.
Un prendere in giro il lettore, un farsi gioco delle figurine dal corpo fatiscente del lussuoso sanatorio, figurine schierate a scopo pedagogico/edificante, senza pietà e con un lirismo irridente. E non solo.
Quello stridio, di cui parlavo prima, mi ricordava quello del bisturi e del seghetto dell’anatomopatologo che seziona un cadavere per scoprirne le cause della morte. E quel cadavere non è quello dell’umanità dolente da che esiste il mondo. Quel cadavere è fresco (o caldo). È appena deceduto nel fatidico anno 1918.
Con uno sguardo alla cronologia, infatti, mi sono accorta che tra l’inizio della stesura del romanzo nel 1912 - in cui si cominciavano a scorgere di “che lacrime e sangue“ era fatta la Bella Époque - e la sua pubblicazione nel 1924, crolla un mondo e soprattutto il mondo borghese tedesco, il mondo di Mann. Lo scoppio della prima guerra mondiale comporta per la borghesia tedesca, e per Mann, la necessità di difendere quell’intimismo dell’artista che rappresentava una garanzia di precaria e problematica autonomia del potere.
Di là dalla mia semplificazione, mi sembra che la poetica dispiegata ne La montagna incantata sia tutta in questa presa di posizione. La narrazione, che prende spunto da un fatto autobiografico e che nasce come scherzo, diventa, in quel lasso di tempo, una metafora del disfacimento della grande borghesia tedesca. Il cadavere che lui seziona è quello della sua amata e perduta borghesia tedesca nel cui alveo Mann vuole con tutte le forze rimanere, pur con l’acuta consapevolezza della crisi mortale che essa sta attraversando.
Il tema della Montagna Incantata, quindi, non è la decadenza dell’uomo, la ricerca del vero, del bello o del giusto, in cui incondizionatamente potremmo riconoscerci. Il tema vero è la decadenza della borghesia tedesca, che è “unica” e “migliore” rispetto, non solo alle altre classi, ma a tutte le borghesie.
Seguendo Lukàcs potremmo dire che Mann ha cercato il “borghese” tutta la vita tentando di contrapporre la civiltà borghese tedesca, fedele ai valori universalistici (ambigui e pericolanti) che hanno accompagnato la sua ascesa, alla borghesia reale, degradata ed umiliata, della fase imperialistica tedesca, quella che lui ravvisa nel Sanatorio di Dorf. In questo senso, la figura di Joachim, quella solo appena lambita dall’ironia di Mann, rappresenta il prototipo del valore del “dovere” proprio della borghesia tedesca sana, cui l’autore si aggrappa. L’ironia, infatti, ci mette in guardia che non si tratta di un “idillio” romantico, di lotta tra il bene e il male che il finale risolverà, come nella letteratura dell’ottocento.
L’uso dell’ironia al limite della parodia (il pantalone a scacchi liso di Settembrini, magari ravvisabile nei Karamazov ma anche nei personaggi delle comiche finali, della cui visione Mann non si è privato), ci dà conto anche, e soprattutto, della contraddittorietà e ambiguità dei personaggi, che è poi quella di Mann. L’uso dell’ironia rende la difesa dei vecchi valori senza speranza, ma l’unica strada percorribile. La ricerca della democrazia del borghese tedesco Castorp, la sua maturazione, non può essere guidata né dal vecchio illuministico umanesimo (impersonato da Settembrini, un italiano con le sue “italianate”), né dal romantico reazionario Naphta.
Infatti, con l’arma dell’ironia demolisce l’assunto pedagogico di cui è destinatario Castorp, il borghese tedesco: l’educazione alla democrazia, alla rinuncia alla tentazione ad abbandonarsi ai richiami dell’inconscio e a non sprofondare nella lugubre magia della notte feudale. Già dalle prime righe il sentimento nichilistico dell’esistenza si manifesta chiaramente: il tedesco, com’è lui stesso, non è disposto ad abbandonare la sua anima borghese e gli insegnamenti (del resto nemmeno convinti di Settembrini) saranno del tutto dimenticati nel momento in cui ritornerà laggiù, dove si spegnerà la fiammella di una speranza sempre più ironica verso se stessa, in nome del senso del dovere ritrovato.
Come traduce nella forma, la sostanza della sua ideologia del suo stare e vivere nel mondo? L’aspetto formale delle opere di Mann è basato in un gioco stilistico smaliziatissimo. Mann usa l’ironia perché non condanna nessuno e non assolve nessuno dei suoi personaggi; il suo stile che sembra così lontano da Joyce o da Musil, in effetti, ne muta l’ambiguità, per cui non si sa mai bene fino a che punto s’identifichi con Castorp o con Settembrini o con Naphta, fino a che punto ami il suo personaggio e dove cominci ad odiarlo; dove lo ammiri o dove lo respinga da sé. In questo è assolutamente decadente e distaccato, e fa parte, a ragione, di quella corrente di grandi narratori del Novecento che devono la loro grandezza alla consapevolezza della fine del romanzo moderno e dei suoi principi di contrapposizione di bene e male. In effetti, Mann è assolutamente legato all’arte a lui contemporanea ma oscilla tra tradizione ed avanguardia, rifuggendo da forme irrigidite e sclerotizzate ma senza abbandonarsi alla rottura delle forme e dall’immersione sperimentale nell’informe. E allora usa l’ironia che confina con la parodia. L’ironia, da atteggiamento spirituale, si trasforma in carattere stilistico, e riesce a fare dimenticare le forme del romanzo tradizionale, paradossalmente tradizionale, manipolandone le stesse forme, aderendo ad esse ma con riserve mentali, pieno di reticenze, ammiccando verso il lettore, per fargli capire che è tutto un gioco, un iridescente, sfavillante, scanzonato gioco stilistico. Il suo insistere sul tempo, sulle differenze del tempo del romanzo, quello di Castorp, quello rarefatto del sanatorio, è anche un mettere alla berlina l’uso verosimile che ne fa lo scrittore dell’ottocento, nel dispiegare le sue storie.
La sua vuole essere una summa ironica di tutta la cultura artistica europea, in cui riverenza e canzonatura si mescolano. L’ironia, come capacità di vivere diverse e contrastanti esperienze, senza mai esaurirsi in nessuna di esse, diventa principio conduttore dell’opera, forma e stile. In ciò consiste l’equilibrismo, il funambolismo di Mann. L’arte diventa una paradossale scommessa, un arduo esercizio di stile. Per tutto questo, Mann non ci presenta figure con cui identificarci. Mann ci rappresenta un mondo, il suo mondo, in via d’estinzione, usando tutto il bagaglio culturale di cui è in possesso, rovesciandone a volte anche i valori.
Tutto questo che mi ha indotto a negare la natura “sentimentale” della costruzione del romanzo. Non c’è un sistema di personaggi, né una morale. C’è un dispiegamento d’idee in una speciale forma romanzo, una via di mezzo tra i dialoghi di Platone e il Faust (seconda parte) di Goethe.
La sua storia non si pone come idea universale di riscatto, è limitata nel tempo – inizio Novecento- e riguarda una sola parte della società presa come corpo, la classe borghese teutonica; ciò rende il romanzo datato e per certi versi sgradevole. La miopia di Mann nel non volere vedere i segni che avrebbero condotto al baratro l’umanità – ma a Mann l’umanità non interessava – e l’ostinato attaccamento ai “valori della borghesia tedesca”, rendono molto stucchevole l’argomento e le finalità del romanzo. Un rifugiarsi, decadente e nichilistico, nel comodo mondo a torto idealizzato. Del resto anche dopo la fine della guerra, e la scoperta degli orrori, parlò ripetutamente di una colpa collettiva dei tedeschi, da ravvisare in fatti culturali, piuttosto che di colpe della sua tanto amata borghesia.

martedì 7 febbraio 2012

Aò, 'mparate sta cosa!


Visto che vado a Roma per un colloquio, voglio omaggiare la Capitale con una delle sue voci più profonde e divertenti.
Roma per me è una seconda patria, a Roma divento bohèmienne e scapestrato.
A Roma mi scateno e perdo il senno. A Roma mi diverto e son me stesso. Il me stesso di quanto tempo fa? Ma è semplice, il me stesso romano antico, nobile e decadente.
A Roma c'ho fatto il più folle capodanno della mia vita, di cui dovrò parlare.
Ora godetevi la poesia e nun rompete li cojoni.

Sonetto 426. Un indovinarello

Sori dottori, chi ssa ddimme prima
come se chiama chi ggoverna er monno?
Cuello che mmanna tanta ggente in cima,
cuello che mmanna tanta ggente in fonno?

Er Papa? er Re? - De cazzi, io ve risponno:
sete cojjoni, e vve lo dico in rima.
Er pelo e er priffe è cquer che ppiú se stima
pe cquanto è llargo e llongo er mappamonno.

Er priffe e ’r pelo sò ddu’ cose uguale,
der pelo e ’r priffe sò ttutti l’inchini,
p’er priffe e ’r pelo se fa er bene e ’r male.

E una cosa dell’antra è tanta amica
cuanto la fica tira li cudrini,
e li cudrini tireno la fica.

TRADUZIONE

Sonetto 426. Un indovinello


Signori dottori, chi sa dirmi prima
come si chiama chi governa il mondo?
Quello che manda tanta gente in cima,
Quello che manda tanta gente in fondo?

Il Papa? Il Re? - Sto cazzo!, io vi rispondo:
siete dei coglioni, e ve lo dico in rima.
Il pelo e la fica è quel che più si stima
per quanto è largo e lungo il mappamondo.

La fica e il pelo sono due cose uguali,
per il pelo e per la fica sono tutti gli inchini,
per la fica e per il pelo si fa il bene e il male.

E una cosa dell’altra è tanto amica
quanto la fica attira i quattrini,
e i quattrini attirano la fica.

lunedì 6 febbraio 2012

La donna telecomandata


Me ne stavo seduto sul muretto della litoranea fumando una Camel e a guardare il mare, quando s’avvicina un vecchio che mi chiede se posso offrirgliene una. Io tiro fuori il pacchetto dalla tasca del giubbino, lo apro e glielo porgo. Lui prende una meravigliosa e mi fa capire che vuole pure accendere.
Non gli domando “per caso vuole anche un polmone?” perché questa stronzata si dice agli amici e non agli sconosciuti, per giunta vecchi.
Dopo aver fatto accendere il matusa torno a guardare il mare e faccio una profonda tirata di sigaretta. Mentre caccio via il fumo con voluttà, guardo di sottecchi alla mia sinistra e vedo che lo scroccone è ancora lì.
Spero che se ne vada e che soprattutto non cominci a parlare magari narrando qualcosa di cui a me non frega un cazzo, tipo un commento sul freddo che fa a fine gennaio.
Il vecchietto mi guarda e mi sorride, con la sigaretta in bocca che gli pende da un lato in precario equilibrio. Io non rispondo al sorriso e comincio a pensare che sia meglio cambiare posto.
A un certo punto il vecchietto dice: “Uagliò, voglio farti un regalo”.
“Un regalo? A me?”
“Sì, proprio a te”.
Ecco qua, lo sapevo. Non posso stare cinque minuti per strada che mi s’attacca un vecchio pazzo.
“Lasciate stare”, gli dico.
“No, tu sei stato gentile e tieni una faccia simpatica. Ho un oggetto che non mi serve più e ho deciso di darlo a te”.
Detto questo, tira fuori dal cappotto un telecomando e me lo porge.
Io lo prendo più per curiosità che altro. Guardo i tasti e noto che ci sono stranissime scritte.
C’è un equalizzatore per decidere se aumentare o diminuire le Tette, il tasto Muta, il tasto OFF, poi c’è un'area DAMMI che comprende i tasti: Birra, Sesso, Cibo. C’è il tasto Basta Frignare, il tasto Dormi, due piccoli tasti Dire sì-Dire no, e altri ancora.
Rido guardando e riguardano questo insolito telecomando e per scherzo domando al tipo se funziona davvero.
“Certo!”, risponde lui. “E te ne faccio dono, a me ormai non serve più”.
Sarebbe davvero grandioso possedere ‘sto telecomando, penso tra me. Mai più problemi con le donne, zero discussioni e rotture di palle. Dovrei solo limitarmi ad ordinare, sarei il padrone assoluto, un despota felice e perennemente soddisfatto.
Mi fermo un po’ a riflettere.
Certo, questo telecomando risolverebbe molti problemi, farei sesso quando mi va, eviterei di sentire lamentele e piagnistei, mangerei agli orari più comodi, farei avere una sesta anche alle tavole da surf, però… però in questo modo la donna diventerebbe un manichino, un automa senza personalità.
Che fine farebbe l’amore? Che fine farebbe la personalità della donna, i suoi capricci, la sua fantasia, la sua imprevedibilità i gesti d’affetto spontanei? Perderei tutto ciò che c’è di bello in un rapporto d’amore. Perderei tutte le qualità che ci fanno innamorare delle donne.
No, questo telecomando è un orrore, è una trappola mortale. Questo vecchio è il diavolo!
“Grazie, signore”, gli dico al fine “ma questo telecomando non mi interessa. Lo dia a un altro”.
Ridò il telecomando a quel demonio, lui se lo rimette in tasca, abbozza un inchino e se ne va.
Quando è lontano circa 50 metri da me, lo richiamo a gran voce. Gli corro incontro e gli dico se può lasciarmi almeno i tasti Dammi BIRRA SESSO CIBO.

domenica 5 febbraio 2012

Breve storia del pensiero sul pensiero [she get 2]


Una breve storia del pensiero sul pensiero ha come tappa obbligata Immanuel Kant.
Kant, come Aristotele, era un professore, e come molti professori era un po’ pedante: inoltre, filosoficamente parlando, era anche una persona ordinata, e quindi potrebbe risultare noiosa. Kant non era né simpatico come Hume, né scrittore “divertente” come Nietzsche. Non biasimo i ragazzi che vorrebbero saltare a piè pari il filosofo di Konigsberg. Sappiate però che, non conoscendo la sua filosofia, nella vita vi mancherà qualcosa: se non altro la pazienza di ascoltare.
Visto che Kant va decantato con cura, questa puntata è dedicata solo a lui. Ho scritto il post più schematicamente possibile in modo da rendere le sue idee più comprensibili.
Nei suoi vasti paragrafi Kant sviluppa un vero e proprio sistema del pensiero e delle sue facoltà, che non tarda ad affermarsi e che rimane a lungo in auge come riferimento imprescindibile. In generale, spiega Kant, “si chiama pensiero il rappresentarsi qualcosa mediante concetti, cioè in termini universali”. Il pensiero, attuandosi mediante “concetti, giudizi e sillogismi”, è la facoltà conoscitiva superiore che rappresenta la spontaneità e l’attività del soggetto, a differenza della sensibilità che ne costituisce invece il lato passivo. Distinto dalle funzioni conoscitive inferiori – che sono: il repraesentare (vorstellen), il percipere (wahrnehmen) e il noscere (kennen) – il pensiero include le seguenti operazioni conoscitive superiori:
1) il cognoscere, cioè “l’avere nozione (kennen) in modo consapevole, vale a dire il conoscere (erkennen)”;
2) l’intelligere, cioè “il capire (verstehen), ossia il conoscere o concepire mediante l’intelletto (Verstand) in forza dei concetti”;
3) il perspicere, ovvero “il conoscere o intuire (einsehen) mediante la ragione (Vernunft)”;
4) il comprehendere, cioè “il comprendere (begreifen) nella misura che è sufficiente alle nostre intuizioni”.
In quanto capacità di quel “soggetto” per eccellenza che è l’uomo, il pensiero si esplica in virtù di tre facoltà fondamentali:
1) l’”intelletto” (Verstand), che è la capacità di “pensare da sé” (selbst denken);
2) il “giudizio” (Urteilskraft), cioè la capacità di “pensarsi (nelle relazioni con gli uomini) al posto di ogni altro” (sich-in der Mitteilung mit Menschen – in die Stelle jedes Anderen denken);
3) la “ragione” (Vernunft), ossia la capacità di “pensare sempre in accordo con se stessi” (jederzeit einstimming mit sich selbst denken).
Quale importanza Kant assegni alla funzione del pensare è indicato dal fatto che per dare un nome alla suprema funzione unificante del nostro conoscere egli scelga il termine, poi diventato celebre, “io penso” (Ich denke): l’”io penso” è il principio “che deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni”. Ma è significativo soprattutto che l’esercizio autonomo del pensiero costituisca per lui, in prospettiva etico-politica, il fondamento sul quale egli basa il progetto illuministico di emancipazione dell’uomo dallo stato di minorità in cui versa.

venerdì 3 febbraio 2012

Questi partiti di merda si fottono i nostri soldi


Dicevo sempre ai miei ragazzi, soprattutto a quelli di V, di interessarsi a quello che più piaceva loro e di fare qualsiasi cosa mettendoci sempre tutta l’anima. Coltivare i propri interessi, le proprie passioni, i propri hobby… giardinaggio, pittura, Harry Potter, la filatelia, qualsiasi cosa, non dimenticando mai però, di riservare un posto alla politica e soprattutto un posto ai SOLDI, alle questioni ECONOMICHE della politica.
Le battaglia ideologiche, le stronzate di D’Alema, i teatrini inscenati nei programmi tv, i comizi, sono tutte bagattelle che non meritano molta attenzione. Il vero interesse, la cosa fondamentale, sono i SOLDI, come vengono gestiti, a chi vanno, chi li ruba, come vengono sprecati, ecc.
Delle ideologie non fotte più un cazzo a nessuno, l’uomo nuovo che si interessa di politica è all’economia politica che deve puntare.
Il caso Lusi di questi giorni ha fatto sorgere per l’ennesima volta lo scandalo dei finanziamenti ai partiti. Una questione che io seguo costantemente perché è una questione economica.
Una situazione scandalosa tipicamente italiana che Marco Travaglio declina nei seguenti modi.
Lo scandalo dei partiti morti che restano in vita solo per incassare i rimborsi elettorali, che seguitano ad affluire anche se i partiti non esistono più e dunque non corrono alle elezioni.
Lo scandalo dei rimborsi assegnati per cinque anni anche se la legislatura ne dura due.
Lo scandalo dei “rimborsi” stessi: finanziamenti pubblici mascherati, in barba al referendum del ’93, che non coprono le spese sostenute dai partiti per le campagne elettorali, ma vengono assegnati “a prescindere”, senza l’ombra di una pezza d’appoggio.
Infatti i partiti spendono 1, incassano 4 e il resto di 3 lo mettono in banca, o lo investono in speculazioni immobiliari o finanziarie in Tanzania (vedi Lega), oppure se lo fregano (vedi Lusi).
Insomma, anarchia assoluta dove ciascuno fa quel che gli pare senza che nessuno controlli nulla. A giudicare su eventuali irregolarità è il foro domestico, cioè il Parlamento (ahahahaha): una mano lava l’altra. Nel 2008 i revisori dei conti di Camera e Senato, esaminando i rendiconti dei partiti sui “rimborsi elettorali” 2006, stabilirono che erano quasi tutti irregolari. Ma non accadde nulla e non pagò nessuno. I partiti, anche se ricevono soldi pubblici (e parecchi: 1 miliardo a legislatura), restano soggetti privati. È dal 1948 che si attende una legge sulla loro responsabilità giuridica, che li obblighi a rispondere della gestione patrimonial-finanziaria e del rispetto delle regole di democrazia interna (tesseramenti, congressi, candidature, gruppi dirigenti, organi di garanzia), con sanzioni efficaci.
Interessiamoci di queste questioni economiche politiche. Questi ladri di merda si fottono soldi pubblici, cioè soldi nostri, cioè soldi che dovrebbero servire per il benessere della comunità e non per arricchirsi con loschi affari.
Chi fosse interessato segnalo il sito de il Fatto Quotidiano, dove troverete anche una petizione da firmare.
Vi posto i punti essenziali della proposta di legge contro le magagne economiche di questi figli di puttana.
1) I rimborsi elettorali non possono superare un tetto massimo e devono essere erogati solo ai partiti che totalizzino almeno l’1% dei voti validi e solo a fronte di fatture che documentino le spese effettivamente sostenute in ogni campagna elettorale.
2) I partiti possono ricevere finanziamenti da imprese o soggetti privati (non da società pubbliche o miste), purché li registrino a bilancio e li dichiarino sui siti delle Camere quando superano la soglia dei 5 mila euro l’anno (quella vigente prima del colpo di spugna del 2006, che la elevò addirittura a 50 mila).
3) Chi riceve contributi da aziende pubbliche o miste di qualsiasi importo, oppure da aziende o soggetti privati superiori ai 5 mila euro senza denunciarli, commette reato di finanziamento illecito (punito con pene severe e carcere vero). Ma incorre anche in sanzioni amministrative (affidate non più all’autodichiarazione delle Camere, ma alla Corte dei conti o alla Consulta): per il singolo parlamentare, la decadenza dal mandato e l’ineleggibilità perpetua; per il partito, che risponde per responsabilità oggettiva per gli amministratori infedeli, una multa fino al doppio dell’ultimo rimborso e la perdita di quello per la campagna successiva. In queste ultime sanzioni incorrono i partiti che violano le regole di democrazia e trasparenza interna.

giovedì 2 febbraio 2012

Breve storia del pensiero sul pensiero [she get 1]


Da quando Parmenide ha formulato la celebre tesi “pensiero ed essere sono la stessa cosa” (fr. 3 … tò gar autò noein estin te kai einai), la filosofia non ha mai smesso di interrogarsi circa quell’indefinibile privilegio della specie umana che è il “pensiero”.
Il pensiero costituisce da sempre una delle questioni fondamentali che impegnano la filosofia e uno dei temi-pilastro sui quali essa ha lavorato e costruito nel corso della sua lunga storia.
Platone e Aristotele fanno del pensiero l’attività che contraddistingue l’uomo dagli altri animali e che, esercitato nella sua purezza come “pensiero di pensiero” (nòesis noéseos), lo rende simile agli dèi. A loro risale il primo studio rigoroso e sistematico delle diverse facoltà della mente – quelle discorsive e mediate dalla ragione (diànoia, ratio), che produce scienza, e quelle “intuitive” e immediate dell’intelletto o intelligenza (nous, intellectus), che coglie i princìpi da cui la scienza muove. In un significativo passo del De partibus animalium, Aristotele arriva a dire che delle parti dell’uomo “solo il pensiero (nous) viene da fuori (thyrathen) ed è divino: perché l’attività del corpo non ha nulla in comune con la sua attività”. Intorno all’enigmatica natura del nous si accenderà una disputa plurisecolare tra i commentatori antichi, arabi e medioevali – Alessandro di Afrodisia, Averroè e Tommaso d’Aquino per citare i più importanti – la quale, coinvolgendo il problema dell’immortalità dell’anima e il rapporto tra ragione e fede, si protrarrà fino in pieno Rinascimento, cioè fino al simbolico termine finale rappresentato dall’anno in cui Pietro Pomponazzi vide bruciato pubblicamente a Venezia il suo De immortalitate animae (1516).
Inaugurando una filosofica età nuova, Cartesio faceva del pensiero il principio incontrovertibile sul quale poggia ogni certezza conoscitiva e poneva così le basi di tutto il razionalismo moderno. Nell’indubitabilità del cogito ergo sum, il principio che dal pensare inferisce l’essere, Cartesio vedeva una “verità così salda e certa che non avrebbero potuto scuoterla neanche le più stravaganti supposizioni degli scettici” e giudicava di poterla assumere senza esitazione quale fondamento primo della sua filosofia (Discorso sul metodo, IV).
Pascal condivide con Cartesio l’idea che il pensiero sia ciò che contraddistingue l’uomo nella sua essenza più profonda: “Posso benissimo concepire l’uomo senza mani, senza piedi e magari senza testa, ma non senza il pensiero” (Pensieri, n. 339). Ma Pascal cala il primato del pensiero in uno sfondo metafisico meno ottimistico, più malinconico e mesto: “L’uomo non è che una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un soffio d’aria, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo… Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. Sforziamoci quindi di ben pensare: ecco il principio della morale”. E a margine si domanda: “Ma che cos’è questo pensiero?” (Pensieri, nn. 346 e 347). È la domanda che alimenterà un importante filone dello spiritualismo francese, raggiungendo un suo punto alto nella memoria di Maine de Biran su L’influenza dell’abitudine sulla facoltà di pensare (1802), ma che occuperà anche pensatori sensisti come Destutt de Tracy, che nella Memoria sulla facoltà di pensare (1798) scrive: “Il pensiero, o la facoltà di pensare, è il fenomeno massimo e più importante del nostro essere… È la nostra esistenza tutta intera… Sarebbe la stessa cosa che la vita, se non fosse che può essere sospeso dal sonno o da altri accidenti”.
È soprattutto nella filosofia tedesca, con la “rivoluzione copernicana” di Kant e con l’idealismo, che il pensiero diventa il baricentro verso il quale gravita ogni nostra esperienza, il punto archimedeo sul quale poggia tutta l’architettonica del nostro conoscere.
E proprio da Kant ripartirà, nel prossimo post, questa breve storia del pensiero sul pensiero.

mercoledì 1 febbraio 2012

Dovrei, ma invece no

Oggi avrei dovuto parlare della storia del pensiero del pensiero.
Oppure scrivere tutto il bello che mi ha lasciato Demoni di Dostoevskij.
Postare gli appunti dell'Interpretazione dei sogni di Freud.
Commentare il vangelo di Matteo letto senza seghe mentali, cioè senza teologia.
Narrarvi la leggendaria leggenda di Buddha secondo la leggenda.
Consigliarvi su cosa dire o non dire mai a una ragazza.
Farvi godere con l'Urlo di Allen Ginsberg.
Parlarvi de La scheggia di Zazubrin.
Indottrinarvi sul divieto della masturbazione che riprese vigore nel Settecento.
Recensire un film che ho visto in lingua originale.
Creare la fenomenologia del recensore di Anobii.
Ricordare la triste figura della suicida Enrichetta Mann.
Raccontarvi di uno strano telecomando.
Divertirvi con il Borghese gentiluomo di Molière.
Delineare la figura del Censore.
Continuare a leggere insieme il Protagora o il Manifesto del partito comunista.
Magari parlarvi dell'apocalisse degli scioperi.
Di sicuro non vi avrei parlato del freddo, perché porca puttana come si fa a parlare del fredo a febbraio? Ma che cacchio di notizia è il freddo in inverno? Del freddo si parla ad agosto, allora sì che ne vale la pena.

Insomma, avrei tante cose da scrivere solo che...solo che oggi penso a lei e non me ne fotte un cazzo niente.