mercoledì 18 luglio 2012

Macchine desideranti [appunti meravigliosi 2]


Tutte le civiltà, tutte le età hanno conosciuto una fine della storia – ciò non prova nulla, né è necessariamente liberatorio. Quanto agli eccessi, o ai momenti di festa, nemmeno loro sono rassicuranti. Ci sono militanti rivoluzionari che avvertono un senso di responsabilità e dicono sì agli eccessi «nel primo stadio della rivoluzione», ma c’è un secondo stadio, l’organizzazione, il funzionamento, le cose serie... Non c’è desiderio liberato in semplici momenti di festa.
Prendiamo la discussione tra Victor e Foucault, apparsa in Les Temps modernes, sui maoisti. Victor approva gli eccessi, ma per il «primo stadio». Quanto al resto, quanto alle cose concrete, Victor reclama un nuovo apparato statale, nuove norme, una giustizia popolare con tribunali, un’istanza esterna alle masse, un soggetto terzo capace di risolvere le contraddizioni tra le masse. Si ritrova sempre il vecchio schema: il distacco di una pseudo avanguardia capace di fare sintesi, di formare un partito come un embrione di apparato statale, di far emergere una classe operaia ben allevata, ben educata; e il resto è residuale, un lumpen proletariat di cui si dovrebbe sempre diffidare (la solita vecchia condanna del desiderio). Ma queste stesse distinzioni sono un modo di piegare il desiderio a vantaggio di una casta burocratica.
Foucault reagisce denunciando il soggetto terzo, affermando che se c’è giustizia popolare, essa non passa attraverso un tribunale. Egli dimostra molto bene che la distinzione «avanguardia-proletariato-plebe non proletarizzata» è innanzitutto una distinzione proposta dalla borghesia alle masse, e di cui essa si serve per soffocare i fenomeni del desiderio, per marginalizzare il desiderio. Tutta la questione sta nell’apparato statale.
Sarebbe bizzarro contare su un partito o un apparato di Stato per la liberazione dei desideri. Richiedere una giustizia migliore è come richiedere migliori giudici, migliori poliziotti, migliori padroni, una Francia più pulita ecc. E allora ci dicono: come volete unificare delle lotte settoriali senza un partito? Come far funzionare la macchina senza un apparato statale? Che la rivoluzione abbia bisogno di una macchina da guerra, è evidente, ma questa non è un apparato statale. Che essa abbia bisogno di un’istanza analitica, un’analisi dei desideri delle masse, è altrettanto certo, ma non è un apparato esterno di sintesi. Dire "liberato" non significa che il desiderio sfugge dall’impasse della fantasia individuale privata: non si tratta di adattarlo, socializzarlo, disciplinarlo, ma di innestarlo in modo tale che il suo processo non sia interrotto in un corpo sociale e che produca degli enunciati collettivi. Ciò che conta non è l’unificazione autoritaria, ma piuttosto una sorta d’infinita propagazione: i desideri nelle scuole, nelle fabbriche, nei quartieri, negli asili nido, nelle prigioni ecc. Non si tratta di controllare, di totalizzare, ma di entrare nello stesso piano di oscillazione. Finché si oscilla tra lo spontaneismo impotente dell’anarchia e il codice burocratico e gerarchico di un’organizzazione di partito, non c’è liberazione del desiderio.
Il capitalismo è stato e rimane una formidabile macchina desiderante.
I flussi di denaro, i mezzi di produzione, la manodopera, i nuovi mercati, tutto questo costituisce un prodotto del desiderio. Basta considerare l’insieme dei casi che sono all’origine del capitalismo per vedere a che punto esso sia stato un crocevia di desideri, e come la sua infrastruttura e persino la sua economia fossero inseparabili dal fenomeno dei desideri. E anche il fascismo bisogna dire che «si è fatto carico dei desideri sociali», inclusi i desideri di repressione e di morte.
Le persone si infiammarono per Hitler, per la stupenda macchina fascista. Ma se ci domandiamo se il capitalismo ai suoi inizi è stato rivoluzionario, se la rivoluzione industriale abbia mai coinciso con una rivoluzione sociale, dobbiamo dire che non ci sembra. Il capitalismo è stato legato fin dalla nascita a una repressione selvaggia, ha avuto subito la sua organizzazione di potere e il suo apparato di Stato. Che il capitalismo abbia implicato una dissoluzione dei codici e dei poteri precedenti, questo sì. Ma aveva già costruito nelle crepe dei precedenti regimi gli ingranaggi del suo potere, compreso il suo potere di Stato. È sempre così: le cose non sono così progredite; ancora prima che una formazione sociale sia insediata, i suoi strumenti di sfruttamento e di repressione sono già lì, che girano ancora a vuoto, ma pronti a funzionare a pieno ritmo. I primi capitalisti erano come uccelli rapaci in agguato. Attendono il loro incontro con il lavoratore che scivola giù per crepe del sistema precedente. È, in ogni senso, ciò che si chiama accumulazione primaria.
In un momento della storia, la borghesia sarebbe rivoluzionaria, e lo sarebbe stata anche necessariamente, era necessario passare attraverso uno stadio del capitalismo, attraverso uno stadio della rivoluzione borghese. È un discorso stalinista, ma non serio.
Quando una formazione sociale si esaurisce e frana da tutte le parti, ogni cosa si decodifica, ogni flusso non controllato si mette a scorrere – come ad esempio la fuga dei contadini nell’Europa feudale, i fenomeni di «deterritorializzazione».
La borghesia impone un nuovo codice, economico e politico, e dunque si può credere che sia stata rivoluzionaria. Ma non è affatto così. Sulla Rivoluzione del 1789 Daniel Guérin ha detto delle cose profonde. La borghesia non ha mai avuto dubbi su quale fosse il suo vero nemico. Il suo vero nemico non era il sistema precedente, ma ciò che sfuggiva al suo controllo e che essa si dava il compito di controllare a sua volta. Essa stessa doveva la propria potenza alla caduta dell’antico sistema; ma questa potenza poteva esercitarla solo nella misura in cui considerava come nemici tutti i rivoluzionari del vecchio sistema. La borghesia non è mai stata rivoluzionaria. La rivoluzione, essa, l’ha fatta fare ad altri. Ha manipolato, arginato e represso un’enorme pulsione di desiderio popolare. Le persone sono andate a farsi uccidere a Valmy.
Da dove vengono queste pressioni, queste sollevazioni, questi entusiasmi che non si spiegano con una razionalità sociale e che sono deviate, catturate dal potere nel momento stesso in cui nascono? Non si può dar conto di una situazione rivoluzionaria con la semplice analisi degli interessi a confronto.
Nel 1903, il partito socialdemocratico russo discute di alleanze, di organizzazione del proletariato, del ruolo dell’avanguardia. All’improvviso, mentre pretende di preparare la rivoluzione, è messo in crisi dagli eventi del 1905 e deve gettarsi su un treno in corsa. Ciò che è accaduto è una cristallizzazione del desiderio a livello sociale sulla base di situazioni ancora incomprensibili. La stessa cosa è accaduta nel 1917. Anche in questo caso i politici hanno ripreso il treno in corsa, riuscendo a raggiungerlo.
Ma nessuna tendenza rivoluzionaria ha saputo o voluto assumere il bisogno di un’organizzazione di consigli, che avrebbe potuto permettere alle masse di farsi realmente carico dei loro interessi e dei loro desideri. Si sono messe in circolazione delle macchine, dette organizzazioni politiche, che funzionavano sul modello elaborato da Dimitrov al VII congresso dell’Internazionale – alternanza di fronti popolari e di concentrazioni settarie – e che giunsero ancora allo stesso risultato repressivo. Lo si è visto nel 1936, nel 1945, nel 1968.
Volutamente anche assiomatiche, queste macchine di massa si rifiutano di liberare l’energia rivoluzionaria. È, subdolamente, una politica paragonabile a quella del presidente della Repubblica o dei preti, ma con la bandiera rossa in mano. E noi pensiamo che ciò corrisponda a una certa posizione nei confronti del desiderio, a un modo profondo di considerare l’io, la persona, la famiglia. Da qui un dilemma molto semplice: o si perviene a un nuovo tipo di strutture che alla fine portano alla fusione dei desideri collettivi e dell’organizzazione rivoluzionaria, o si continua sull’onda presente e, di repressione in repressione, si arriverà a un fascismo rispetto al quale Hitler e Mussolini sembreranno uno scherzo da ragazzi.
L’organizzazione rivoluzionaria deve essere quella di una macchina da guerra e non di un apparato statale, un analizzatore del desiderio e non una sintesi esterna. In ogni sistema sociale vi sono sempre delle linee di fuga; e poi anche degli irrigidimenti per impedire queste fughe, o (il che non è la stessa cosa) degli apparati ancora embrionali che le integrano, le deviano, le arrestano, in un nuovo sistema in preparazione. Occorrerebbe analizzare le crociate da questo punto di vista. Ma rispetto a tutto questo, il capitalismo ha un carattere molto particolare: le sue linee di fuga non sono solo difficoltà che sopraggiungono, ma condizioni del suo esercizio. È costituito su una decodificazione generalizzata di tutti i flussi, flussi di ricchezza, di lavoro, di linguaggio, di arte ecc. Non ha ricostruito un codice, ha costituito uno spazio di compatibilità, un’assiomatica dei flussi decodificati, alla base della sua economia. Lega i punti di fuga e riparte in avanti.
Allarga sempre i propri limiti, e si trova sempre nella situazione di dover arginare le nuove fughe, sulla base di nuovi limiti. Non ha risolto nessuno dei suoi problemi fondamentali, non riesce nemmeno a prevedere quale sarà, nell’arco di un anno, l’aumento della massa monetaria di un paese. Non cessa di superare i suoi limiti, che riappaiono più lontano. Si mette in situazioni incredibili in rapporto alla sua produzione, alla sua vita sociale, alla sua demografia, alla sua periferia del terzo mondo, alle sue regioni interne ecc. Fughe ve ne sono ovunque, che rinascono sempre dai limiti spostati dal capitalismo. E forse la fuga rivoluzionaria (la fuga attiva, quella di cui parla Jackson quando dice: «non smetto di fuggire, ma fuggendo, cerco un’arma...») non è affatto la stessa cosa di altri tipi di fughe, la fuga schizo, la fuga tossico. Ma questo è proprio il problema dei marginali: fare in modo che le linee di fuga si innestino su un piano rivoluzionario. Nel capitalismo c’è dunque un carattere nuovo assunto dalle linee di fuga, e anche potenzialità rivoluzionarie di un nuovo tipo. Come vedete, non ci resta che sperarlo.
La schizofrenia è indissociabile dal sistema capitalistico, esso stesso concepito come una prima fuga: una malattia esclusiva. In altre società, la fuga e la marginalità assumono altri aspetti. L’individuo sociale delle società cosiddette primitive non si fa rinchiudere. La prigione e l’asilo sono nozioni recenti. Lo si caccia, lo si esilia al margine del villaggio e ne muore, a meno che non si integri nel villaggio vicino. Ogni sistema ha del resto la sua malattia particolare: l’isteria delle società cosiddette primitive, le manie depressivo-paranoiche nel grande Impero...
L’economia capitalista procede attraverso decodificazioni e deterritorializzazioni: ha i suoi malati estremi, cioè gli schizofrenici che si decodificano e deterritorializzano al limite, ma anche le sue estreme conseguenze, le rivoluzioni.

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