lunedì 11 giugno 2012

Il ramarro (1946-1948)


VII.

Ho sentito lo spaventevole
dialogo dei morti,
fatto di tarli
nei legni scuri delle sacrestie;
di colpi di piedi scalzi
in grandi camere vuote,
dove il lucore della candela
si fissa negli angoli
delle porte aperte,
delle cornici d’oro degli specchi;
di zirli di tordi
saliti dai laghi di nebbia.
Ho una piccola predilezione per i libri di poesie giovanili perché si ha l’occasione di seguire l’apprendistato del poeta, gli influssi delle letture, le influenze, i debiti di stile ed ispirazione e altre cose del genere. È assente la deferenza ossequiosa che si prova davanti ai capolavori celebri e celebrati.
Nel caso del volumetto Il ramarro di Paolo Volponi, salta agli occhi la scoperta della poesia moderna: Ungaretti, Quasimodo, Montale, l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Master.
Leggiamo una testimonianza dello stesso Volponi: “Perché scrivevo poesie allora, non ancora ventenne? Perché ero incerto, perché avevo paura. Ero folgorato da certe immagini, da certe visioni, filtrate attraverso il ricordo delle letture incerte e frammentarie della scuola, che mi portavano ad avere un rapporto con fatti lontani magici perenni quali gli astri, il paesaggio, le stagioni, le tempeste o le ragazze; o certe durezze della vita di allora, anche se già toccata dalle grandi speranze della libertà e poco dopo esaltata dagli effetti della liberazione.
Scrivevo per uscire da me stesso, per intervenire e organizzare un piccolo, modesto rapporto con il mondo, di nuove immagini, di altre espressioni per le mie pene che invece erano vecchie, erano molto profonde dentro di me, perché erano le pene tradizionali delle adolescenze addolorate e immature”.

Nelle poesie de Il ramarro si vede che Volponi applicò ai temi del proprio paesaggio originario la lingua poetica dell’ermetismo; c’è lo sforzo di appropriarsi di alcune costanti stilistiche tipiche dei poeti più arditi di quella stagione.
Seguendo le notazioni tecniche di Emanuele Zinato possiamo notare che nei versicoli dominano il sostantivo assoluto, con sospensione dell’articolo (“Vastità che soffro”), l’analogismo sviluppato mediante coppie inconsuete di aggettivo e sostantivo o epiteti di tipo sinestetico [la sinestesia è una figura retorica che prevede l'accostamento di due termini appartenenti a due piani sensoriali diversi] (“Pareti rosse d’aria”; “L’ondoso ottobre”; “le gole veloci”), e l’accostamento paratattico [un modo di costruire il periodo caratterizzato dall'accostamento di frasi dello stesso ordine, ossia coordinate tra loro. Di solito si parla di paratassi quando il periodo è costruito solo con frasi principali] di pochi e scabri vocaboli ad articolare l’incanto della totalità indivisa.
Tra i tratti originali, si delineano un diffuso zoomorfismo e un paesaggismo come sfondo di mitologie viscerali, mentre sulle sequenze figurative opera l’influenza del pittore, acquafortista e poeta marchigiano Luigi Bartolini, con i suoi ascendenti vociani, da Campana a Cardarelli.
La corposità antropomorfa ne Il ramarro è il segno di un paesaggio psichico più che naturale: l’ansia conoscitiva si proietta sulle cose e in esse riconosce un frammento pulsionale, ora affermativo ora negativo. Il paesaggio, e soprattutto il personaggio femminile, si sdoppiano nel segno della repulsione e della contaminazione. L’esordio poetico di Volponi, come attestano i frequentissimi verbi percettivi (“Io sento | il rumore dell’ossatura delle cose; “ho sentito lo spaventevole | dialogo dei morti”; “Mi tocco le ossa frequentemente | per prepararmi”), è interamente all’insegna dell’”epica della percezione” di un corpo “veggente e senziente” in movimento. Il sensuale panismo, pur presente massicciamente (“Nelle notti di maggio | … dilato il mio corpo sui boschi, | e mi tendo”) è attraversato da lame conoscitive, necessariamente crudeli e ostili (“L’ape è pesante | l’erba è tagliente”; “Perché mi troverò nella morte e non stupirò | fra le gelatine freddissime | di ombre scompaginate”).
XIV.

Questa noia,
fuori del tempo,
che non si raffredda
fra la neve.
Ha spento gli spazi.
È nel bicchiere,
sulla tavola
più grande di due deserti.
Sono inutile
più di un’ala
secca di cicala.

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