venerdì 22 giugno 2012

Carmelo Bene sull'Ulisse di Joyce


Sacco di gas cadaverici mezzo di marcia salmastra. Un brulichio di pesciolini, grassi del bocconcino spugnoso, sprizza fuori delle fessure della patta abbottonata. Dio diventa uomo diventa pesce diventa oca bernacla diventa montagna del letto di piuma. Aliti morti io vivente respiro, calco morta polvere, divoro i rifiuti urinosi di tutti i morti. Issato rigido sopra lo scalmiere rifiata all’insù il tanfo della sua tomba verde con le nari lebbrose che russano al sole.
Trasformazione marina, questa, occhi castani azzurrosalino. Morte marina, la più mite di tutte le morti note all’uomo. Il vecchio padre Oceano. Prix de Paris: guardarsi dalle imitazioni. Provare per credere. Ci siamo divertiti immensamente.
È abbastanza perverso scegliere un libro, non si può scegliere un libro.
Ecco, se proprio bisogna farlo, allora si sceglie un libro che abbia non solo determinato, ma cambiato magari una vita. Ebbene l’Ulisse di Joyce, avevo allora 22 anni, cambiò la mia vita completamente, radicalmente – da così a così. Poi nessun altro libro mi ha modificato la vita. Sì, tutti, in un certo senso… Kafka, chi non modifica Kafka? D’accordissimo, ma a me avvenne con l’Ulisse di Joyce.
Joyce può cambiare una vita. A me cambiò una vita, ma ha cambiato la mia vita in teatro, ha cambiato la mia vita nella vita, ha cambiato le mie emozioni musicali (non musicistiche, ma musicali), ha cambiato tutti i miei concetti di timbrica, di ritmica, mi ha sconvolto il linguaggio – completamente, mi ha cambiato il cervello. Non mi par cosa da poco; credo che pochi autori possano far questo.
In Joyce, per la prima volta, ci troviamo davanti a un pensiero dell’immediato, all’immediato pensiero; tanto che non pare scritto, pare sottratto alla scrittura stessa. Cioè non dice: “Tizio si svegliò una mattina e si trovò mutato in coleottero”; be’, lì c’è un altro gioco va bene, c’è un pensiero; ma, nell’Ulisse, quanto viene pensato è reso attraverso l’immediato e questo non lo ha nessun altro autore al mondo.
L’Ulisse di Joyce si può proporre anche come il modo più straordinario, l’esempio più fulgido di cinema; ma quello sulla pagina, non il filmaccio che ne hanno ricavato. Non esiste un film, un criterio del montaggio di questa immediatezza. Il cinema passa sempre attraverso il “morto”, così come il dire passa sempre attraverso il “detto”, cioè il detto è il morto.
Nell’Ulisse di Joyce non ci sono mai “pensieri”, “Pensò che…” No! tutti questi pensieri sono catapultati in balia di chissà quante combine di significanti.
Quando parlo di Joyce che cambiò la mia vita, alludo soltanto al Joyce del Finnegan’s Wake e dell’Ulisse e a certe poesie giovanili, ma non certo al Dedalus oppure ai Dublinesi, perché questi ultimi titoli potrebbe averli scritti qualsiasi altro autore e lo stesso Joyce non mi avrebbe così modificato.

L’applicazione dell’Ulisse si può fare a teatro, investe il linguaggio. È un linguaggio senza pensiero, senza pensiero pensato, in quanto questo pensiero è immediato.
Il grande Joyce critico si annuncia già nella fase giovanile, nelle poesie non solo d’occasione, ma anche in quelle giovanili. Quando uno pensa ad Eliot e legge
Rouen is the rainiest place, getting
Inside all impermeables, wetting
Damp marrow in drenched bones.
Midwinter soused us coming over Le Mans
Our inn at Niort was the Grape of Burgundy

But the winepress of the Lord thundered over that grape of Burgundy
And we left it in a hurgundy.
(Hurry up, Joyce, it's time!)

I heard mosquitoes swarm in old Bordeaux
So many!
I had not thought the earth contained so many
(Hurry up, Joyce, it's time)

Mr Anthologos, the local gardener,
Greycapped, with politness full of cunning
Has made wine these fifty years
And told me in his southern French
La petit vin is the surest drink to buy
For if 'tis bad
Vous ne l'avez pas paye
(Hurry up, hurry up, now, now, now!)

But we shall have great times,
When we return to Clinic, that waste land
O Esculapios!
(Shan't we? Shan't we? Shan't we?)
Ecco, un saggio su Eliot, mastodontico, che nessun critico può fare, nemmeno Pound e sto parlando di Pound, quindi... C’è questa elettricità in Joyce sulla lingua e c’è questo linguaggio che si arrende ai significanti, si rende, ne crea quasi degli incroci continui dai quali non si esce e i personaggi non esistono.
Per quanto riguarda l’Ulisse non si può parlare di monologo interiore. L’Ulisse non ha precedenti, purtroppo forse ha qualche seguace, qualche epigono. Non si può pensare, per esempio, a Pizzuto, a certe cose… è evidente che è un lettore di Joyce. Non si può pensare a Gadda, se vogliamo, ma quello che in Gadda resta grande ingegneria, grande meccanica, alla quale io preferisco l’Alberto Pisani di Dossi perché almeno è così giovane… ed è altra cosa. Riuscire ad arrivare a un’immediatezza simile, penso appartenga solo a Finnegan’s Wake e all’Ulisse. Fondamentalmente all’Ulisse.
Non è un modo di raccontare perché non c’è racconto, Joyce non racconta - riesce a raccontare non raccontando, è questo passaggio del pensiero che non è obbligato dal concetto a essere mediato, a trovare una mediazione, a trovare una ruffiana che poi lo stiri sulla carta. Quello che anche nei grandissimi scrittori mi lascia perplesso; questa sicurezza di aver detto davvero il pensiero e qui il pensiero è completamente preso in giro e c’è questa immediatezza, ripeto, unica.
Penso sia IL libro della storia umana.
Il pregio dell’Ulisse è al di là delle intenzioni di Joyce di riproporre una moderna Odissea, perché anche in Dedalus allora avrebbe potuto… eppure non c’è la stessa operazione. Il ritratto dell’artista da giovane è un’operazione che avrebbe sepolto Joyce tra i tanti, nella miriade, degli artisti della penna, chissà chi se ne ricorderebbe.
In effetti poi l’Ulisse di Joyce è rimasto un libro eternamente chiuso, che sarà eternamente chiuso. In tutte le case, le case “mondane”, ho visto sempre molto intonso l’Ulisse, lì in un angolino… bisognava averlo, magari non si aveva altro ma l’Ulisse doveva essere sul tavolo, poteva entrare qualcuno da un momento all’altro, guai senza l’Ulisse… rappresentava un po’ il decoro, il décor del decoro degli anni ’60 possedere l’Ulisse.

Io mi auguravo nella mia illusione, nel mio candore giovanissimo d’allora, che dopo l’Ulisse… bè nessuno più scriverà un libro, finalmente nessuno scriverà un libro, finalmente si ripubblicheranno i classici, come si deve, finalmente la gente qui in Italia rileggerà i classici… e invece no, c’è stata proprio un’inflazione editoriale, si continua a scrivere sonnecchiando, dimenticando, cercando di rimuovere l’Ulisse di Joyce e secondo me non si può rimuovere l’Ulisse di Joyce, ma chissà per quanti secoli… forse millenni.
Il dramma Esuli, che Joyce pubblicò nel 1917, non l’ho letto – non leggo nulla che sia scritto per il teatro. Sono riuscito a leggere Platone, ma proprio cercando negli anni scorsi di depennare la forma dialogata. Io detesto il teatro.
L’Ulisse è soprattutto grandissimo cinema e tutto quello che il cinema dai fratelli Lumiere in poi non è mai riuscito a fare, l’ha fatto Joyce nell’Ulisse. Queste sono le immagini, immagini di prima, si direbbe, ecco… mentre il cinema non fa altro che riferire l’immagine morta – del set. Dov’è il set in una pagina dell’Ulisse?
Di solito lo scrittore dice, anche stendhaliano, “e allora pensò che”; Joyce non scrive “pensò alla trasformazione marina”, Joyce attacca: “trasformazione marina”. Banalizza ancora di più: “occhi castani azzurosalino”, “morte marina, la più mite di tutte le morti note all’uomo” imbecillità clamorosa… è quasi un fumetto del pensiero. Riuscire a rendere tutta questa banalità attraverso un’altra scrittura; cosa che Zola, grande scrittore, sognerebbe; che Stendhal, sommo scrittore, sognerebbe, ma sono scrittori… credono davvero di aver espresso il pensiero del di dentro e che questo coincida, lo ripeto, col pensiero del di fuori, solamente a James Joyce è stato dato… sono disgrazie, oppure sono fortune, venture… Solo a Joyce è stata data questa chance. Bisogna essere visitati, è inutile cercare le cose… gli è stato dato il dono dell’immediato.
La banalità dei cosiddetti personaggi la si intravede, e qui è il grande magistero di Joyce. Perché la intrasenti, senti gli odori, senti tutto, senti il lezzo, oppure “i profumi a Gibilterra quella notte dove perdemmo il battello ad Algeciras, dove lui mi disse che ero un fiore di montagna, sì, siamo tutti fiori”, si sente che sta pensando una donnetta dal cervellino così che è Molly Bloom.
Si sente tutto questo, ma non c’è.

[per concludere, posto questo pensiero di Carmelo che mi piace troppo, pronunciato con una faccia da schiaffi che fa innamorare]

Io non ho mai scritto per scrivere, da scrittore, ma per mia terapia. Così come ho sempre praticato anche il teatro, mai frequentando un copione cosiddetto, mai frequentando un dramma, una drammaturgia. Shakespeare è un poeta, Marlowe è un poeta, Corneille, Racine sono dei poeti, quindi se ne prende atto in quanto tali non in quanto “autori di teatro”. La cosa sarebbe repellente per quanto mi riguarda data la mia allergia al teatro.

2 commenti:

  1. Mi confermi che si tratta della trascrizione della famosa intervista televisiva che Antonio Debenedetti fece a Carmelo Bene?

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