giovedì 5 aprile 2012

Il pensiero all'asciutto

(i pesci, senza acqua, muoiono)

Nella Lettera sull’”umanismo”, pubblicata nel 1946, Martin Heidegger pone una questione filosofica che mi ha sempre interessato. Si interroga sulla vera funzione che dovrebbe possedere il pensiero filosofico e analizza quella specie di “senso di colpa” di cui soffrono i filosofi ai nostri tempi.
Partendo dalla voglia di esperire nella sua purezza l’essenza del pensiero, Heidegger ci dice che bisogna liberarsi dall’interpretazione tecnica del pensiero i cui inizi risalgono fino a Platone e ad Aristotele.
In tale interpretazione, secondo il filosofico tedesco, il pensiero è inteso come una tékne, come il procedimento del riflettere al servizio del fare e del produrre. Ma già qui il riflettere è visto in riferimento alla praxis e alla poiesis. Per questo il pensiero, se lo si prende per se stesso, non è “pratico”. La caratterizzazione del pensiero come teoria e la determinazione del conoscere come comportamento “teoretico” avvengono già all’interno dell’interpretazione “tecnica” del pensiero.
Essa è un tentativo di reazione per salvare ancora un’autonomia del pensiero nei confronti dell’agire e del fare. Da allora la “filosofia” si trova nella costante necessità di giustificare la propria esistenza di fronte alle “scienze”. Essa pensa che ciò possa avvenire nel modo più sicuro elevandosi a sua volta al rango di una scienza. Ma questo sforzo è l’abbandono dell’essenza del pensiero.
La filosofia è perseguitata dal timore di perdere in considerazione e in valore se non è una scienza. Questo fatto è considerato una deficienza ed è assimilato alla non scientificità. Nell’interpretazione tecnica del pensiero l’essere, come elemento del pensiero, è abbandonato. La “logica” è la sanzione di questa interpretazione che prende avvio dalla sofistica e da Platone. Si giudica il pensiero con una misura che gli è inadeguata.
Questo modo di giudicare equivale al processo che tenta di valutare l’essenza e le facoltà del pesce in base alle sue capacità di vivere all’asciutto.
E’ proprio così? Il pensiero filosofico è costretto a vivere all’asciutto? Cosa si dovrebbe fare per riportare di nuovo il pensiero nel suo elemento autentico?

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