mercoledì 29 febbraio 2012

La maestà dello scheletro


Andare al Museo di Storia Naturale con Cioran non significa fare i turisti giapponesi del cacchio, ma vivere una magnifica esperienza filosofica.
Cioran rimase colpito da quelle orbite, più insistenti a guardarvi che se fossero state occhi, quella fiera di crani, quel ghigno automatico a tutti i livelli della zoologia.
In quel luogo dove vengono servite dosi massicce di passato, il possibile sembra inconcepibile, o bislacco. Si ha l’impressione che la carne si sia dileguata fin dal suo primo apparire, anzi che non sia mai esistita, che non abbia mai potuto appiccicarsi su quelle ossa così solenni, così piene di sé.
La carne è come un’impostura, un inganno, un travestimento che non copre niente.
Era dunque soltanto questo? E se non vale di più, come mai riesce a ispirarmi repulsione o terrore?
Cioran ha sempre avuto una predilezione per coloro che sono stati assillati dalla nullità della carne, che le hanno dato grande importanza: Baudelaire, Swift, Buddha… Benché così evidente, essa è un’anomalia: più la consideriamo, più ce ne distogliamo con orrore; e a furia di scrutarla ci s’incammina verso il minerale, ci si pietrifica. Per sopportarne la vista, o l’idea, ci vuole assai più che coraggio: ci vuole cinismo.
Ci si inganna sulla sua natura quando, come Gregorio Nazianzeno, la si dice notturna; e le si fa anche troppo onore; non è né strana né tenebrosa, è deperibile fino all’indecenza, fino alla demenza; non solo è sede di malattie, è essa stessa malattia, incurabile niente, finzione degenerata in calamità.
Forse ho torto a pensarci sempre; non si può vivere e insieme appesantircisi sopra; non ce la farebbe nemmeno un gigante. Invece io la sento più di quanto sia permesso sentirla; ed essa ne approfitta, mi costringe a conferirle uno status sproporzionato, e a tal punto mi accaparra e mi domina, che ormai il mio spirito non è altro che viscere.
Accanto alla solidità, alla serietà dello scheletro, appare comicamente frivola e provvisoria. Adula e soddisfa quel drogato di precarietà che sono io.
Forse vi disturberà questa mia euforia d’universo ripulito della carne, la mia giubilazione del post vitam. Forse la mia visione potrebbe condividerla un becchino che avesse un’infarinatura di metafisica.
Concludiamo la visita la museo con lo scheletro dell’uomo, con l’uomo in piedi.
Tutti gli altri animali stanno curvi, avviliti, oppressi, perfino la giraffa, nonostante quel collo, perfino l’iguanodonte, grottesco nella sua volontà di raddrizzarsi. Più vicino a noi, l’orangutan, il gorilla, lo scimpanzé – tutte le pene che si son prese per tenersi dritti sono in pura perdita. I loro sforzi non hanno avuto successo e se ne restano lì, miserevoli, fermi a mezza strada, contrariati nella loro ricerca di verticalità. Gobbi, insomma. È certo che saremmo ancora come loro, se non avessimo avuto la fortuna di fare un passo avanti decisivo. Da allora, ci si ingegna a cancellare ogni traccia della nostra bassa estrazione; di qui, quell’aria provocante, così peculiare dell’uomo. Accanto a lui, con quel suo modo di stare e le arie che si dà, perfino i dinosauri sono timidi. Ma poiché le sue vere sconfitte sono appena cominciate, avrà tutto il tempo di metter giudizio. Tutto lascia prevedere che, tornando alla sua fase iniziale, ritroverà questo scimpanzé, questo gorilla, questo orangutan, e sarà di nuovo simile a loro, e gli sarà sempre più malagevole traballare nella sua posizione verticale. Anzi, può darsi che, stremato dalla stanchezza, diventi ancora più curvo dei suoi compagni di un tempo.
Giunto alle soglie della senilità, forse si ri-scimmierà: e non si vede che altro di meglio potrebbe fare.

Nessun commento:

Posta un commento