giovedì 2 febbraio 2012

Breve storia del pensiero sul pensiero [she get 1]


Da quando Parmenide ha formulato la celebre tesi “pensiero ed essere sono la stessa cosa” (fr. 3 … tò gar autò noein estin te kai einai), la filosofia non ha mai smesso di interrogarsi circa quell’indefinibile privilegio della specie umana che è il “pensiero”.
Il pensiero costituisce da sempre una delle questioni fondamentali che impegnano la filosofia e uno dei temi-pilastro sui quali essa ha lavorato e costruito nel corso della sua lunga storia.
Platone e Aristotele fanno del pensiero l’attività che contraddistingue l’uomo dagli altri animali e che, esercitato nella sua purezza come “pensiero di pensiero” (nòesis noéseos), lo rende simile agli dèi. A loro risale il primo studio rigoroso e sistematico delle diverse facoltà della mente – quelle discorsive e mediate dalla ragione (diànoia, ratio), che produce scienza, e quelle “intuitive” e immediate dell’intelletto o intelligenza (nous, intellectus), che coglie i princìpi da cui la scienza muove. In un significativo passo del De partibus animalium, Aristotele arriva a dire che delle parti dell’uomo “solo il pensiero (nous) viene da fuori (thyrathen) ed è divino: perché l’attività del corpo non ha nulla in comune con la sua attività”. Intorno all’enigmatica natura del nous si accenderà una disputa plurisecolare tra i commentatori antichi, arabi e medioevali – Alessandro di Afrodisia, Averroè e Tommaso d’Aquino per citare i più importanti – la quale, coinvolgendo il problema dell’immortalità dell’anima e il rapporto tra ragione e fede, si protrarrà fino in pieno Rinascimento, cioè fino al simbolico termine finale rappresentato dall’anno in cui Pietro Pomponazzi vide bruciato pubblicamente a Venezia il suo De immortalitate animae (1516).
Inaugurando una filosofica età nuova, Cartesio faceva del pensiero il principio incontrovertibile sul quale poggia ogni certezza conoscitiva e poneva così le basi di tutto il razionalismo moderno. Nell’indubitabilità del cogito ergo sum, il principio che dal pensare inferisce l’essere, Cartesio vedeva una “verità così salda e certa che non avrebbero potuto scuoterla neanche le più stravaganti supposizioni degli scettici” e giudicava di poterla assumere senza esitazione quale fondamento primo della sua filosofia (Discorso sul metodo, IV).
Pascal condivide con Cartesio l’idea che il pensiero sia ciò che contraddistingue l’uomo nella sua essenza più profonda: “Posso benissimo concepire l’uomo senza mani, senza piedi e magari senza testa, ma non senza il pensiero” (Pensieri, n. 339). Ma Pascal cala il primato del pensiero in uno sfondo metafisico meno ottimistico, più malinconico e mesto: “L’uomo non è che una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per schiacciarlo; un soffio d’aria, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo… Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. Sforziamoci quindi di ben pensare: ecco il principio della morale”. E a margine si domanda: “Ma che cos’è questo pensiero?” (Pensieri, nn. 346 e 347). È la domanda che alimenterà un importante filone dello spiritualismo francese, raggiungendo un suo punto alto nella memoria di Maine de Biran su L’influenza dell’abitudine sulla facoltà di pensare (1802), ma che occuperà anche pensatori sensisti come Destutt de Tracy, che nella Memoria sulla facoltà di pensare (1798) scrive: “Il pensiero, o la facoltà di pensare, è il fenomeno massimo e più importante del nostro essere… È la nostra esistenza tutta intera… Sarebbe la stessa cosa che la vita, se non fosse che può essere sospeso dal sonno o da altri accidenti”.
È soprattutto nella filosofia tedesca, con la “rivoluzione copernicana” di Kant e con l’idealismo, che il pensiero diventa il baricentro verso il quale gravita ogni nostra esperienza, il punto archimedeo sul quale poggia tutta l’architettonica del nostro conoscere.
E proprio da Kant ripartirà, nel prossimo post, questa breve storia del pensiero sul pensiero.

2 commenti:

  1. Non lo so, credo che il pensare sia sopravvalutato. O forse io che penso troppo, e la cosa mi sfinisce spesso e dà soddisfazione raramente, ritengo che pensare nuoccia, e invidio chi pensa poco, anche se non si eleva, anche se rimane mediocre.. ma almeno è contento e sereno. Ogni tanto preferirei non pensare, ogni tanto può salvare agire "naturalmente", istintivamente. Perché a forza di pensare si rischia di negare la spontaneità dell'individuo, mosso da bisogni primari e fondamentali, che se troppo repressi, creano un sacco di problemi.
    p.s. bello leggerti ;)

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    1. Lo so, cominciare a pensare è cominciare ad essere minati...
      Tante volte ho pensato quello che hai scritto tu, di come la mia vita sarebbe stata migliore e più semplice se avessi pensato di meno e agito di più, dando più spazio all'animalità istintiva che alla corteccia cerebrale.
      Mah...come fare a cambiare? Bisognerebbe pensare a un modo che permetta di pensare di meno.
      Mò ci penso ;)

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