giovedì 19 gennaio 2012

Manifesto del partito comunista [scritti introduttivi-seconda parte]


Mentre Adam Smith nella “ricchezza delle nazioni” celebrava la fine politica dell’Ancien Régime, nel Manifesto l’impetuoso sviluppo delle forze produttive stimolato dalla borghesia è un epitaffio per un ordinamento che, proprio grazie agli straordinari successi da esso conseguiti, fa apparire politicamente e moralmente inammissibile la miseria e l’insicurezza di massa su cui, nonostante tutto, esso continua a fondarsi.
Siamo in presenza di un problema politico; non è più un discorso di costrizione naturale come lo era stato in passato. E il problema politico risiede non già nella penuria ormai sconfitta, bensì in una “ricchezza delle nazioni” che non riesce a divenire reale ricchezza sociale.
Nel Manifesto assistiamo ad una interessante polemica a distanza tra Marx ed Engels da un lato e Tocqueville (e la tradizione politica di cui egli è eminente rappresentante) dall’altro.
Punto di partenza di Tocqueville sono le rivoluzioni del 1848.
Nel fare il bilancio degli sconvolgimenti e della catastrofe della “Primavera dei popoli”, il liberale francese li mette sul conto del socialismo, cioè delle “teorie economiche e politiche” le quali vorrebbero far “credere che le miserie umane siano opera delle leggi e non della provvidenza, e che si potrebbe sopprimere la povertà cambiando l’ordinamento sociale”.
È per l’appunto la tesi sostenuta, alla vigilia della rivoluzione, dal Manifesto, il quale intende in primo luogo chiamare i “proletari” a prendere consapevolezza della dimensione eminentemente politica del loro dramma. Ma voler intervenire in questa sfera significa per Tocqueville intaccare l’ordinamento naturale della “società”, facendo “a pezzi le basi su cui essa riposa”.
In realtà, replicano Marx ed Engels nel II capitolo Proletari e comunisti:
Voi condividete con tutte le classi dominanti tramontate la concezione interessata in base alla quale trasformate i vostri rapporti di produzione e di proprietà, da rapporti storici quali essi sono, che appaiono e scompaiono nel corso della produzione, in leggi eterne della natura e della ragione. Ciò che voi comprendete riguardo alla proprietà antica, ciò che voi comprendete riguardo alla proprietà feudale, non riuscite più a comprenderlo riguardo alla proprietà borghese.
Una critica simile, era apparsa l’anno prima in Miseria della filosofia, quando erano stati biasimati gli economisti: per essi “c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più”.
Per Tocqueville, è proprio l’illusione che ci sia un politico “rimedio contro questo male ereditario e incurabile della povertà e del lavoro” a provocare gli “esperimenti” e le “rovine” che caratterizzano l’incessante ciclo rivoluzionario francese sfociato nel socialismo. Secondo Tocqueville siamo in presenza di un’ideologia visionaria, di un “errore funesto” che bisogna assolutamente liquidare.
Per il Manifesto, il socialismo non è l’elaborazione, folle o geniale che sia, di un intellettuale o gruppo di intellettuali, bensì l’espressione teorica di bisogni e possibilità reali:
Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto su idee, su princìpi inventati o scoperti da qualche apostolo salvatore del mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe già in atto, di un movimento storico che si sta evolvendo sotto i nostri occhi.
Faticosamente, tra tentativi ed errori, i proletari prendono coscienza del fatto che le “catene” che gravano su di loro, la “schiavitù” che essi subiscono, rinviano a un ordinamento politico-sociale storicamente determinato che si tratta ora di mettere in discussione.

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