mercoledì 3 agosto 2011

Fiorita come la lussuria

(Hans Bellmer, Céphalopode, 1943)

Cerco SOGNI da collezionare. Scrivere a Joyce Mansour, 1 avenue du Maréchal-Maunory. Prarigi 16°.

(riassunto dell'introduzione)

Il surrealismo storico (1924-1969) si fondava su un “elemento trinitario” imprescindibile formato da amore, poesia e rivoluzione.
Tuttavia, per quanto riguarda l’amore, ci sono alcuni buchi neri relativi in particolare al ruolo della donna e delle diversità sessuali. Nella prassi del surrealismo la donna finisce talvolta per rivelarsi un mero complemento ispiratore dell’artista: una sorta di oggetto da collocare sull’altare di un patetico culto del femminino, quando non addirittura una presenza mitica o stregonica da raffinare nella fucina del proprio ego letterario.
Non ci si distacca molto, insomma, dallo schema dicotomico tipicamente giudaico-cristiano della donna vista o come vergine-madre, o come figura perturbante e demoniaca. La donna, anche per i surrealisti, sembra un essere dotato di una propria identità solo di riflesso. Tralascio la questione “omosessualità” perché il violento ostracismo di Breton e compagni è indifendibile. Per alcuni surrealisti, la questione di una relazione amorosa tra individui dello stesso sesso non è neanche da porsi, perché finirebbe per inquinare la visione romantica e sostanzialmente convenzionale del rapporto tra uomo e donna su cui si fonda gran parte dell’armamentario surrealista.
In questo quadro, velocemente delineato, è un’eccezione la poetessa Joyce Mansour che rappresenta il versante protofemminista (e bisessuale) del surrealismo.
L’opera letteraria della Mansour, ridisegna incessantemente una cartografia dell’amore carnale, cercando, allo stesso tempo, di sottrarlo all’utilitarismo e ai buoni sentimenti; il tutto grazie all’espressione di un’energia vitale ricca di humour e di fervido erotismo. Nella poesia della Mansour è quanto mai preminente la lotta tra Eros e Thanatos, benché si risolva spesso in un’aggressiva ed ironica civetteria, la quale si sposa bene alle ruvidità, per niente volgari, di una scrittura risoluta e personale.
Secondo Arthur Rimbaud, la “donna poeta”, liberata dalle costrizioni sociali, avrebbe trovato “cose strane, insondabili, ripugnanti, deliziose”. Ebbene, con la poesia di Joyce Mansour, tale premonizione ha trovato una emozionante realizzazione.

Tu dici che le donne
Devono soffrire ingentilirsi e viaggiare senza riprendere fiato
Risvegliare le pietre preziose abbellite dal fard
Cantare o tacere fendere la bruma
Ahimè io non potrei danzare in una palude di sangue
La tua figura brilla dall’altro lato dalla riva felice
Tutto ciò che è vivo marcisce

Tu dici che le donne
Devono sapersi spogliare di ogni bene
Del bambino ancora riluttante
All’amore
La tua figura illividisce man mano che la tua fortuna aumenta
Ed io voglio morire avvoltolata nella salvia
Orgogliosamente perfida nell’immobilità dell’esilio

Tu dici che le donne
Devono distruggersi per non partorire
E attendere attendere la solida voluttà che serpeggia
Ahimè a me non piace far l’amore sul tappeto
Belzebù tuba nella gola dei piccioni
Il tuo anello brucia la mia coscia
Lo smeraldo è la verginità
Del ricco

Tu dici che le donne
Sono fatte per nutrire
Il fumo penitente che ansima in chiesa
Le troie pallide e gonfie lumeggiate di seta sporca
Teste tagliate anche e perché no dopo tutto
Straordinarie notti polari dai silenzi sanguinari
Io credo che ora posso lasciarti andare

Le tue gambe volano alte nella sacrestia
Battendo
Le ginocchia
Come tanti predicatori
Io son ben contenta d’avere un cappello in testa
Anche se la tua orina contiene tutta la festa di nozze
Tu dici che le donne sono le canoniche del delirio
Ahimè io assaporo solo la morte

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